Quando la porta si apre ed il vagone vomita via cento corpi in corsa verso bisogni innaturali, ecco che altri corrono dentro, ognuno a trovare un proprio spazio da riempire, come nella vita, nel vagone dove si compongono alberi di braccia intrecciate ed equilibri precari. E c'è sempre quell'odore strano, nel vagone della metro, quello di tutti quei pensieri rimasti sui finestrini della metro. Non risolti. E c'è sempre quell'odore strano, forte, a volte acido, che rimane in gola, forse ancora vivo, nel vagone della metro, di tutti quei pensieri lasciati nella fretta di arrivare alla scala mobile, schivare il prossimo e rincorrere le priorità quotidiane nel vortice frenetico, che c'è sempre tanta fretta, troppa. E i pensieri rimangono lì, a marcire.
Chi non ha mai preso la metro e non si è trovato lì, in un vagone della metro, nella faccia degli altri a cercare la faccia degli altri, per poi abbassare lo sguardo non appena lo sguardo di un altro si incroci con il proprio, ad abbassarlo fingendosi distratto e invece ci si distraeva nella faccia degli altri (perché nella metro c'è chi legge un libro e c'è chi legge la metro, ogni faccia una pagina da interpretare), chi non ha mai preso la metro e non si è trovato lì, nel vagone della metro dove passa vita d'ogni sorta, dove basta ascoltare soltanto un po' per pescare parole dagli alfabeti cittadini, che loro, le parole, sanno mescolarsi senza troppa burocrazia e confini, chi non si è trovato lì non conosce quella città. Ne conosce altre, diverse, magari fatte di traffico e semafori o d'alberi e pedali. E chi non si ritrova mai nella propria immagine, riflessa nel finestrino del vagone della metro, non ha pensieri. O è un fantasma.