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"I piccoli maestri" di Luigi Meneghello

Creato il 31 dicembre 2010 da Giuseppe7405

Ne I piccoli maestri, pochi mesi dopo essere andato sull’Altipiano di Asiago, assieme a quelli che allora non si chiamavano ancora partigiani, il giovane Luigi Meneghello incontra un capo di una banda (da qui il nome di “banditi”, termine che per i nazi-fascisti aveva un carattere spregiativo, ma che, invece, diverrà parte di un epos tutto da raccontare) e ha con lui un dialogo fecondo. L’incontro tra il borghese e colto Meneghello e il “popolano” capo partigiano, svela all’autore l’inadeguatezza delle formule storiche, filosofiche e sociologiche (crociane, salveminiane e gramsciane), spese per comprendere e definire il fenomeno del fascismo e l’altro fenomeno, l’opposto del primo, quello che assumerà il nome di “Resistenza”.
Meneghello s’accorge dell’incomunicabilità tra lui e il “popolano” Castagna, e della inutilità delle classiche categorie sociologiche o politiche per comprendere un fenomeno in atto. Meneghello racconta:
Volevo … informarmi un po’ sul loro ethos (del Castagna e dei suoi uomini), ma naturalmente c’è lo svantaggio che in dialetto un termine così è sconosciuto. Non si può domandare: «Ciò, che ethos gavìo vialtri?». Non è che manchi una parola per caso, per una svista dei nostri progenitori che hanno fabbricato il dialetto. Tu puoi voltarlo e girarlo, quel concetto lì, volendolo dire in dialetto, non troverai mai un modo di dirlo che non significhi qualcosa di tutto diverso; anzi mi viene in mente che la deficienza non sta nel dialetto ma proprio nell’ethos, che è una gran bella parola per fare dei discorsi profondi, ma cosa voglia dire di preciso non si sa, e forse la sua funzione è proprio questa, di non dir niente, ma in modo profondo. Ce ne sono tante altre di questo tipo; la più frequente, all’università, presso studenti e professori, era istanze. Adesso che ci penso anche istanze in fondo vuoi dire ethos, cioè niente.
Domandai quindi al Castagna: «Perché siete qua voi altri?».
Il Castagna disse: «Come perché?».
«Come mai che vi siete decisi a venire qua?»
«E dove volevi che andassimo?» disse il Castagna.
Questo chiuse questa parte dell’indagine. Poi io dissi:
«E quando finisce la guerra, cosa pensate di fare?».
«Andiamo giù, no?»
«E cosa farete, quando siete giù?»
«I saccheggi» disse il Castagna.
Annuii con un senso di scandalo non disgiunto dall’ammirazione. M’informai se c’erano dei piani prestabiliti per questi saccheggi. Mi parve di capire che il Castagna pensasse soprattutto a dei festeggiamenti, un banchetto all’aperto, il tiro alla fune, le corse nei sacchi tra ex fascisti. Sacchi, da cui forse saccheggi.
«E poi?» dissi «dopo i saccheggi?»
Il Castagna si mise a guardarmi, e disse: «Voi siete studenti, no?».
Io feci segno di sì, e lui disse: «Si vede subito che siete finetti».
«Castagna» dissi. «Non credi che bisognerebbe provare a cambiare l’Italia? Non andava mica bene, come era prima. Si potrebbe dire che siamo qui per quello.»
«A dirtela proprio giusta,» disse il Castagna «a me dell’Italia non me ne importa mica tanto.»
«Ma t’importerà chi comanda a Canòve, no?» Canòve era il suo paese.
Disse che si sapeva già, chi avrebbe comandato a Canòve.
«Sentiamo» dissi.
«Il sottoscritto» disse il Castagna.
«Solo per qualche giorno.»
«Facciamo qualche settimana.»
«E dopo?» dissi io.
«Dopo andrà su un governo, no?»
Gli domandai se non gli interessava che governo andasse su.
Il Castagna mi disse di fargli vedere le mani. Gliele feci vedere dalla parte delle palme (perché questa frase in dialetto vuoi dire così) e lui ci mise vicino le sue. Sulle palme io avevo qualche callo qua e là, ma recente, pallido, avventizio; lui aveva tutta una crosta antica, scura, quasi congenita; non erano calli, ma una mutazione dei tessuti.
«Vedi?» disse il Castagna. «Quando va su un governo, noialtri dobbiamo lavorare.»
«Anche se fossero fascisti?» dissi.
«Eh no, per la madonna» disse lui. «I fascisti non sono mica un governo.»
«Già» dissi io. «I fascisti sono...» Cercavo una formula salveminiana.
«Rotti in culo» disse il Castagna.
Questo era il suo ethos. Mi disse anche cosa avrebbe fatto se per disdetta tornassero su proprio loro.
«Allora,» disse «torniamo su anche noi. Torniamo qua.».

Questo dialogo sintetizza il “succo” del libro di Meneghello che, fin dal titolo (l’aggettivo “piccoli” accostato a un parolone come “maestri”), si pone come un documento antiretorico e antieroico sulla Resistenza. Per questo mi sembra sia un capolavoro: perché il libro è un “romanzo”, benché narri di fatti realmente accaduto, ma è anche, per certi aspetti, un affresco su un’Italia dilaniata dalla guerra civile e su una Resistenza vera, autentica, non colorata dai toni retorici di una memorialistica che ha fatto alla Resistenza più male che bene.
Meneghello non redige una cronaca, né esprime un giudizio su un periodo storico, ma è attento a cogliere la vita partigiana nelle sue minuzie. I partigiani hanno paura, muoiono quasi sempre senza eroismo (“il brutto dei rastrellamenti era che se si sapeva che non ci avrebbero fatto prigionieri. Se andava male, andava male in modo assoluto”), e hanno degli atteggiamenti privi quasi sempre di quel manto di splendore che si tenderebbe a immaginare che appartenga a degli eroi. Essi sono uomini: e Meneghello è uomo con loro e sa che se è sopravvissuto è stato per caso, per fortuna, non per chissà quale merito. Ed è consapevole che la necessità di ricordare i fatti a cui ha assistito, e gli amici morti, non è un onore, non deve diventare un pretesto per lasciarsi andare alla vanità. Ma si tratta di un peso, uno dei tanti, della vita, che va sopportato.
Meneghello la Resistenza l’ha “fatta” sull’Altipiano di Asiago, poi nel vicentino e infine a Padova, in mezzo ai fascisti e ai nazisti, negli ultimi mesi di guerra. L’autore racconta questi momenti, che s’inseriscono nella storia d’Italia, mantenendo sempre l’occhio verso il microcosmo dell’ambiente in cui vive, verso le storie individuali, che sono quelle che formano la storia universale, non viceversa. Meneghello, un po’ come in Libera nos a Malo, procede creando cammei, lavorando di lima, offrendo uno sguardo disincantato su un periodo storico che ha deluso molte attese solo perché, forse, quelle attese erano mal poste. Perché aspettarsi un’Italia nuova, migliore, del tutto diversa, dopo il 1943? Sarebbero cambiate veramente le cose? O avrebbero continuato a comandare i soliti volti noti? Il fossato tra “popolo” e “intellettuali” sarebbe rimasto lo stesso? Quando Meneghello si trova ad “arringare” a Malo un gruppo di suoi compaesani, si scopre, suo malgrado, ad atteggiarsi come un “capo” solo perché sa parlare. E non riesce a fare altrimenti:
“È un bel vantaggio l’educazione umanistica. Chi sa parlare, comanda. Ma io ce l’avevo con questa educazione umanistica; me ne aveva fatte di sporche. Non volevo comandare; però parlavo. Dicevo: «Non fatevi influenzare da nessuno, e tanto meno da me; fate quello che vi pare giusto»; e tutti dicevano: «Bravo, ostia: facciamo come dice lui»”.
Il libro sa essere leggero, intessuto di ironia, a volte tragica, a volte comica. Spesso il libro strappa un sorriso sincero e poi, poche pagine più in là, fa quasi piangere. Quando volte Menghello parla di un suo compagno di lotta, in termini teneri se non comici e, poco dopo, dice che per quel suo amico si trattava dell’ultimo mese di vita. Perché così era la guerra partigiana: non un’epopea, bensì una tragedia, collettiva e individuale assieme, composta da tante altre piccole tragedie umane.
La bellezza del libro consiste anche nel rispetto con cui l’autore racconta del “popolo” vero, delle persone semplici che quasi sempre aiutano i partigiani. I popolani, gli abitanti del paesi dell’Altipiano, i malgari, gli allevatori aiutano i partigiani e, in quel modo, sono assai più utili di coloro che imbracciano fucili per divertirsi ma che poi, alle prime difficoltà, tornano alle loro case, a cospirare nel chiuso delle stanze.
Perché la Resistenza, prima che un pezzo di storia italiana, è una sorta di presa di coscienza politica e sociale di un’intera generazione. Per questo possiede un significato esistenziale, essendo stata un snodo decisivo per la vita di tante persone. Ma queste cose si sanno adesso, dopo che il fenomeno storico è avvenuto, mentre al momento, quando il fenomeno storico era in atto, era impossibile accorgersene. E molte scelte avvenivano per caso, per impulso, per incoscienza. Per questo l’autore è molto duro quando condanna i suoi compagni di studi, definiti “villeggianti della guerra”, incapaci di cogliere quell’appuntamento con la storia, inclini a nascondersi nelle proprie stanze, tra i libri. Egli scrive a un certo punto, dopo aver incontrato, in montagna, dei partigiani comunisti, organizzatissimi e all’apparenza sicuri del fatto loro, delle loro idee, dei motivi per i quali si battevano:
"Venivano in mente per contrasto quei compagni di scuola, a Vicenza o a Padova, che continuavano a occuparsi, forse presso una zia di campagna, di Kierkegaard e di Jaspers, o addirittura di esami universitari, per avvantaggiarsi nella vita e nella carriera, magari con qualche lirica ermetica in proprio, trasudata negli intervalli".
Questa critica a chi ha compiuto scelte di vita diverse non è però un’accusa di codardia, né uno scadimento retorico da parte dell’autore; ma è la sottolineatura di una realtà complessa, che va sotto il nome di Resistenza, ma che non è esistita, probabilmente, come fenomeno sociale generale, perché si è formata attraverso scelte singolarissime, sovente nate da motivazioni per nulla nobili. Per questo Meneghello non fa sconti a nessuno, nemmeno a se stesso, per esempio quando racconta dell’atteggiamento degli abitanti delle malghe vicino ad Asiago, pronti a offrire ai partigiani i loro poveri prodotti, privandosene talvolta, ben sapendo che per loro la fine della guerra non avrebbe significato un alleviamento della povertà. E al confronto Meneghello e i suoi compagni cittadini, saliti lassù a combattere i fascisti, appaiono dei ragazzi viziati che si mettono nei guai quasi per gioco, e che poi sarebbero tornati alle loro città, ai loro libri, alle loro domande filosofiche.
E la cultura, la filosofia, la letteratura, in quelle condizioni dove pensiero e azione sono legati indissolubilmente, sono dei pesi difficili da portare. Riportando il dialogo con una popolana, una donna giunonica che suscita in Meneghello un desiderio erotico di sapore quasi religioso, l’autore scrive queste frasi:
«Per studiare studio», dissi. «Ma non imparo niente».
«Allora si vede che sei uno zuccone», disse la Gina. Poi mi domandò se studiavo da vocato.
Io feci segno di no, e lei disse: «Da cosa studi tu?».
«Filosofia» dissi. Lei domandò cosa si fa quando si è studiato filosofia, e io le disse che si prende la laura. Lei voleva sapere che mestiere si fa, e io dissi che volendo si può insegnare filosofia agli altri, ma di solito quelli che la insegnano non la sanno.
«E cosa fanno quelli che la sanno?».
«Se la tengono in mente».
«E poi?».
«E poi pensano, e tutto quello che pensano è filosofia».
«E poi?».
«E poi muoiono».

Sembra quasi di sentire un’eco della definizione che Hegel dava della filosofia, la nottola di Minerva, l’uccello della sera, perché la filosofia giunge sempre “dopo”, alla fine, a comprendere un fenomeno, un evento, un’epoca storica. Per questo, si è detto, quando la Resistenza era “in atto”, contemporanea, non serviva la cultura, ma serviva l’autenticità dell’essere uomini, l’istinto, la fortuna.
La guerra partigiana, per quasi due anni, ha livellato gli uomini, rendendoli uguali non nelle idee, bensì nei fatti, nelle azioni; poi ogni cosa è tornata ad andare come prima, benché ammantata da una parvenza di democrazia. E l’ironia amara di Meneghello non è superficialità, né disconoscimento del grande valore culturale e storico della Resistenza, ma è la consapevolezza della fragilità delle vicende umane, del loro carattere caotico, spesso vano, e della necessità di non farsi corrompere da una retorica malsana, non lontana da quella fascista, se non nei toni e negli argomenti, nei modi.
Meneghello, pubblicando I piccoli maestri nel 1964, quasi vent’anni dalla fine della guerra, ha saputo essere realista senza annoiare, senza fare una cronaca di fatti sin troppo noti; egli ha invece saputo scendere nel grembo dei fatti, non per interpretarli alla luce di chissà quali teorie filosofiche, ma per raccontarli senza tacere nulla della loro essenza. La Resistenza, allora, appare nella sue pagine qualcosa di informe, grandioso, caotico, incomprensibile, un insieme di errori e di pressapochismi che pure hanno avuto successo, conducendo l’Italia verso il 25 aprile 1945. Tra morti per fucilazione, impiccagione, tortura e morti in combattimenti, tra uomini rastrellati e capaci di non rivelare i nomi dei propri compagni, tra donne che collaborano fino a morire per uomini che non conoscono nemmeno, la Resistenza non appare più come un’epopea, come qualcosa che è accaduto e che rimane lontano quale un passato mitico fossilizzato nella memoria; ma diventa una sorta di fiume che scorre continuamente, talvolta in modo piano e monotono, talaltra gorgheggiando, facendo spuma e chiasso, talvolta colorandosi di marrone e fango, talaltra diventando azzurro e purissimo. Questo, forse, ci dice Meneghello, attraverso le sue pagine, scrivendo della Resistenza con il distacco di chi ha vissuto quel periodo senza esserne travolto.

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