Che qualcosa stia davvero cambiando nel Sudtirolo ideale eterno delle contrapposizioni simboliche scandite a passo di marcia? Se verranno confermate le defezioni annunciate, se cioè alla nuova sfilata secessionista degli Schützen, in programma stasera, mancherà la partecipazione degli esponenti politici “tedeschi” – sia nel partito di maggioranza (Svp) che in quello di più forte opposizione (Freiheitlichen), solitamente entrambi assai prudenti nel criticare le iniziative dei cappelli piumati – si potrà allora dire che l’implicito ricatto rappresentato da queste prove di forza etniche comincia a mostrare la corda. Parallelamente si dimostrerà anche che la via “verso il futuro” non può più essere cercata nelle forme e con i metodi usati nel passato.
In una breve intervista pubblicata dal settimanale L’Espresso il 24 giugno del 1979, lo studioso di miti Furio Jesi aveva risposto così alla domanda sulla specificità di una cultura di destra: “La cultura entro la quale il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile. La cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari. La cultura in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto Tradizione e Cultura ma anche Giustizia, Libertà, Rivoluzione. Una cultura, insomma, fatta di autorità, di sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire”. Non bisogna scandalizzarsi al cospetto di questo tipo di cultura, aggiungeva Jesi; bisogna però misurare bene il potere che l’influenza di una simile cultura, una volta concessale per inerzia o pavidità l’egemonia, potrebbe estendere sulla nostra stessa capacità di sfuggire a dinamiche ormai usurate e controproducenti. Ed è chiaro che l’avvertimento vada replicato anche per quanto riguarda tendenze affini dalla parte contraria, spengendo sul nascere ogni tentazione di restaurare, sia pure per un effetto di semplice reazione, pose nazionalistiche di segno opposto.
Lasciamo dunque nella loro solitudine estremistica queste fiaccole e questi slogan, sperando che torni presto il buio e il silenzio. La difficile impresa di immaginarci e costruire un futuro comune non dovrebbe passare per scelte radicali o richiami a indossare vecchie e nuove divise.
C’è una città e ci sono paesi che possiamo abitare e cambiare nella luce più sfumata del mondo della vita, dove si preparano fatiche e gioie da nominare con tante parole minuscole intrecciate fra loro. Minimi racconti senza l’ambizione di fare la Storia, ma che invece alla fine – con piccoli e forse più fortunati passi – sono proprio loro a muovere la nostra storia.
Corriere dell’Alto Adige, 14 aprile 2012