Non so quanti anni avessi quando mi capitò tra le mani la prima poesia. Né di cosa parlasse. Né chi l’avesse scritta. Ricordo soltanto che mi aveva commosso. Siccome ero già grande per capire cosa fosse la vergogna, me ne stetti zitto. I ragazzi con i quali ci spaccavamo le caviglie a vicenda, nel campetto di calcio, dietro casa, non me lo avrebbero mai perdonato. Ne lessi altre, e con l’andare degli anni, diventò piano piano un’abitudine. Ma anche se non giocavo più in quel potrero della mia infanzia e i ragazzi d’allora non eravamo più ragazzi, quella lettura continuò ad essere, comunque, un piacere solitario.
E’ passato del tempo. Della nostalgia di una volta mi porto dietro alcune cicatrici, ma in linea di massima, credo di esserne guarito. Forse per questo ogni tanto me la concedo. La domenica, ad esempio, quando il lavoro mi consente di rimanere a casa, quando il pianeta non gira per il verso giusto e sento come il bisogno di una mano che mi accarezzi l’anima, allora mi chiudo dentro, spengo il telefono, preparo il mate (quell’infuso amaro e secolare che richiama i brani più dolci di una vita andata) e butto giù dal loro letto verticale alcuni di quei vecchi compagni di viaggio, poeti e cantautori che fecero vibrare come nessuno la mia umanità adolescenziale, quando il sogno di tutti era quello di cambiare il mondo, e il mondo andava avanti, tutto preso a cambiare noi.
So di essere in debito con questi uomini e queste donne, e credo che in maggior o minor misura lo siamo tutti noi. Perché? Perché loro hanno avuto il coraggio di continuare a fantasticare quando è stata bandita la fantasia. Perché hanno la forza di urlare quando tutto propende al silenzio. Perché il loro silenzio è più forte del vociare di qualsiasi moltitudine, e quando scende su di noi, é sempre il preludio di una lunga notte. Perché amano la vita. Perché hanno il vezzo di corteggiare la morte. Perché c’è sempre qualcuno che cerca di ridurli alla ragione. Perché hanno preso il brutto vizio della verità, e non riescono a scrollarselo di dosso. Perché sanno che qualcuno di quelli che oggi tenta di condannarli all’oblio si riempirà la bocca con le loro parole, un giorno, e lo farà con il sollievo di non dover guardarli negli occhi. Perché la loro poesia continua ad essere un potenziale agente di distruzione di masse, un’ arma carica di futuro, come azzardava Celaya, un virus letale, la più devastante delle pandemie.
E a noi non resta che stare attenti. Perché se siamo stati esposti al contagio, se almeno una volta abbiamo sentito un fremito nelle vene nell’ascoltare un brano qualsiasi, di un qualsiasi poeta, vuol dire che siamo stati irrimediabilmente contaminati.
Molte volte ho sognato, diceva Cioràn, un mostro malinconico ed erudito, versato in tutte le lingue del creato, intimo di ogni verso e di tutte le anime, che girovaga il mondo alla ricerca di veleni di cui cibarsi, di ebbrezza, attraverso le Persie, le Cine, le Indie morte e le Europe agonizzanti, ho sognato tante volte un amico dei poeti, uno che cerca di conoscerli tutti quanti, per la disperazione di non essere uno di loro.
E allora (ecco l’appello, che mai mi riuscirà, che spero qualcuno mi aiuterà a fare)
Proviamoci noi, che non siamo capaci di accenderlo, a ravvivare questo fuoco. A diventare intimi con quest’aria fugace che una volta ci si è intrufolata tra i capelli. La poesia e lì, dice qualcuno, accanto a noi, basta saperla riconoscere. E’ quel segno rimasto nel guanciale dopo una notte d’amore con una sconosciuta. Il cenno di un manifesto nel metrò. Quell’uomo insignificante che spazza lucernari e parapetti solo per cortesia nei confronti del cielo. Quei pazzi che continuano imperterriti a cercare i loro mulini a vento nell’aria ammorbante della città. Lo sguardo assente di un ubriaco dopo la sbornia…
Proviamoci anche noi, a tempo perso. Proviamo a fare uscire i poeti dalla loro tana. Adottiamone uno a distanza, e portiamolo a vivere tra la gente. Trascriviamolo, traduciamolo, faxiamolo, incidiamolo; vandalizziamo i muri con la sua presenza, regaliamolo a qualcuno che vogliamo bene, a quelli con cui non vorremmo condividere nemmeno l’aria del pianeta; abbandoniamolo dal parrucchiere, dal medico, dal dentista; piazziamo una sua pagina tra i rotocalchi del giornalaio, i tanti Chi, Di Chi, Con chi, Chi è, (c’è il rischio di provocare uno shock anafilattico, ma dopo tutto nessuno vive in eterno) appendiamolo sulla porta della cabina, mentre ci cambiamo il costume, attacchiamolo sul muro nei bagni delle stazioni, tra le proposte d’incontro e la dimensione dei peni in offerta speciale, infiliamolo in una bottiglia e buttiamola nel cesso, indirizzata al mare; inseriamolo di soppiatto nell’urna elettorale…
Non m’illudo. Lo so che la poesia non salverà il mondo. Non basterebbe l’acqua dell’universo per lavare tutta la sporcizia accumulata. Ma senza quell’acqua, il mondo sarebbe già morto di sete.
Non so, fate voi. Io ci ho provato. Sono sicuro che non cambierà niente.
Ma… se succedesse un miracolo, se trovaste per caso la frase di un poeta dietro il verbale della multa che il vigile vi ha attaccato al parabrezza, o nello scontrino del supermercato, o nel risvolto della giacca appena consegnata dalla lavanderia… vi prego, fatemelo sapere. Mi sembrerà di avere onorato una piccola rata del mio debito.
E saprò cosa rispondere a quelli che continuano a ripetere A chi interessa oggi la poesia?