Per gli scrittori che si apprestano a scrivere un romanzo sulla contemporaneità italiana c’è un nuovo problema da gestire e una vecchia idea da riporre in soffitta. Forse.
Quante volte abbiamo sentito dire che l’Italia non è un Paese per giovani, che molti altri Stati includono la gioventù nei gangli del potere politico, economico e sociale. Un Paese, il nostro, dove non è semplice affermarsi prima dei 40 anni e dove il ricambio generazionale è lento, quasi bloccato. Dirigenti sotto i 40 anni? Pochi. Professori ordinari sotto i 40 anni? Pochi. Politici sotto i 40 anni? Pochi.
I vecchi resistono, occupano poltrone e posti di comando. L’Italia è un Paese per anziani.
Poi, in pochi giorni, dopo le elezioni, compaiono articoli sui quali molti di noi sono rimasti a bocca aperta, ma come? Fino a ieri eravamo figli della gerontocrazia e invece ora sembriamo affetti da giovanilismo cronico.
Prendiamo i dati, nudi e crudi.
Dalle ultime elezioni è uscito il Parlamento più giovane della storia repubblicana, la media fra deputati e senatori è di 48 anni (deputati una media di 45 anni e senatori di 53 anni). Letto così non ci fa molto effetto, se non affiancando il dato con altre nazioni. I politici italiani sono i più giovani eletti rispetto a Francia, Spagna, Germania, Regno Unito e perfino agli Stati Uniti. Per una volta la nostra politica sembra essere un faro di riferimento, almeno dal punto di vista anagrafico. Per una volta la politica fa meglio della società. Avete un brivido alla schiena, vero?
Sapranno gli scrittori italiani cogliere questa novità? Sapranno afferrare i conflitti e gli scenari nuovi che mai avremmo pensato prima di considerare data la nostra proverbiale compiacenza verso meccanismi dettati da cortecce cerebrali anziane?
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