ATTO I: LA PREMESSA
Ah, sister! Desolation is a delicate thing:
It walks not on the earth, it floats not on the air,
But treads with lulling footstep, and fans with silent wing
The tender hopes which in their hearts the best and gentlest bear;
Who, soothed to false repose by the fanning plumes above
And the music-stirring motion of its soft and busy feet,
Dream visions of aerial joy, and call the monster, Love,
And wake, and find the shadow Pain, as he whom now we greet
Da questo struggente paragrafo dell’opera in quattro atti di F. B Shelley, Prometheus Unbound, uno dei lavori più belli mai scritti da essere umano, risalta una frase sopra le altre, leggera e pungente come certe brezze serali d’Agosto: “Ah, sorella! La desolazione è una cosa delicata”. Non c’è nulla di cosi vero. Quell’ angosciante sensazione di vuoto vaporoso che preme contro le pareti dello stomaco e del cranio, quando siamo visitati dalla delusione e dalle aspettative del Mostro Amore, non si può che chiamare desolazione. Desolazione è quel che porta ad affinarsi alla sottile arte dell’auto distruzione e a permearsi di quel sentimento, cosi sottovalutato, che è il rancore, che tanto riempie quanto svuota. Costretti, per vocazione e deformazione, nella ricerca di qualche forma di verità, gli artisti lo sanno bene di che materia e natura bestiale è fatto il mostro. “Odio questo posto perché mi ha fatto pensare” diceva il protagonista di un vecchio western ormai caduto nel dimenticatoio. Già, ci si odia spesso quando troppo si pensa poiché non si può tornare, talvolta, laddove la mente ci ha portati e, inevitabilmente, ci si trova dinanzi a l’ombra Dolore, a cui, a quel punto, non si può che aprire le braccia.
ATTO II: NEL MEDITERANNEO…
Uno dei migliori piloti della Luftwaffe con 28 vittorie in scontri aerei e fratello del popolare cantante Ivan Rebroff, un deciso e spietato patriota. Era così all’epoca il venticinquenne Horst Rippert, asso che ricevette perfino i complimenti di Goering, ignorando le voci che giravano sul suo conto: che non fosse un puro ariano e che addirittura avesse sangue ebreo. Ma il terzo Reich aveva bisogna di gente come lui e come Adolf Galang, “l’acrobata del circo di Hitler”, scaltri assassini del cielo. La notte del ’31 Luglio del ’44 le spiagge della Normandia erano sporche di sangue ancora fresco e Rippert, che stava sorvegliando i cieli del Mediterraneo, sul suo Messerchmitt Bf 109 cercava la sua prossima vittima. D’un tratto lo vide, un Lightning P-38 con i colori della Francia su un lato, in rotta in bassa quota verso Marsiglia. “Mi sono lanciato nella sua direzione e ho tirato.- ha raccontato nel 2008, a 88 anni Rippert- è caduto a picco nel mare.” Il pilota di quell’aereo, inghiottito dalle fredde e nere acque notturne, era il papà de Il piccolo principe, Antoine de Saint-Exupéry. Il creatore di una delle opere più dolci e di resistente delicatezza. Come la desolazione.
Exupéry era un uomo schivo, di poche parole, che viveva soprattutto per tre cose: la sua compagna di vita Consuelo, conosciuta a Parigi nel ’31, anche lei scrittrice, pittrice e artista legata al movimento surrealista, con cui ebbe una relazione travagliata fatta di lunghe separazioni e tradimenti; la sua arte e viaggiare sopra le nuvole. Pilota per le poste francesi per cui vola in Spagna, Marocco, Senegal e Capo Juby, vicino al Sahara, dove vive per un anno e scrive il suo primo libro. Poi direttore del servizio aereo portuale di Buenos Aires. Una vita avventurosa quella del padre del piccolo principe (la sua esistenza sarà spunto per non pochi film e romanzi tra cui Le Ali del Coraggio di Jean Jacques Annaud): partecipa come pilota e giornalista inviato sia al raid aereo Parigi-Saigon che alla Guerra Civile spagnola. Mentre è intento ad accumulare medaglie e premi letterari arriva però come una gigante nuvola nera la Seconda Guerra Mondiale. Nel ’39 si arruola nell’aereonautica militare francese. Riuscirà a rimanere in vita tra incidenti e un’alleanza con gli americani, che cercherà di convincere a fare guerra alla Germania , fino al 31 Luglio del ’44, quando incontrerà Rippert. L’uomo che viveva in cielo quando sulla terra trovò la morte…
ATTO III: NEL CUORE DEL CENTRO STORICO…
Circa sessantotto anni dopo la morte di Exupéry e a soli quattro dal ritrovamento del suo aereo, un neo-regista teatrale e una compagnia di quattro attori mette in scena in un piccolo teatro nel cuore del centro storico della capitale I principi che eravamo. Uno spettacolo finanziato dallo stesso regista, Francesco Piotti, che descrive così il suo riadattamento del capolavoro letterario: “Nasce un piccolo principe rivisitato, rivoluzionato, spogliato da intenti retorici e pedagogici, pronto a far vivere a chiunque la straordinaria avventura alla ricerca del piccolo principe che eravamo”.
Sul palco della piccola sala Orfeo del Teatro dell’Orologio, va in scena l’avventura di un piccolo impiegato che si ritrova ad essere proiettato in un mondo sognato, simbolico ed onirico che lo porterà ad uno stadio di consapevolezza che gli saprà donare di nuovo linfa vitale e la capacità di privarsi, nelle parole del suo regista, “delle corazze generate dal sistema di cinismo di cui la nostra società ha inalato spacciandole per elisir di successo e benessere.”
Con l’utilizzo di una messa in scena essenziale e di proiezioni animate, che cercano, con risultati altalenanti (tremenda e stranamente anni ottanta la distesa di rose), di riproporre lo stile inconfondibile delle illustrazioni del libro, quello che va in scena, con la giocosità e semplicità che lo contraddistingue dall’inizio alla fine, è fondamentalmente una rappresentazione per bambini. Piotti semplifica il testo estrapolando gli elementi necessari, mantenendo forse eccessivamente il testo originario, (anche se lì dove talvolta mette la sua penna il risultato è stridente), per creare una parabola semplice e lineare a tratti persino banale, ma chiara. Tutto le metafore politiche e filosofiche che caratterizzano l’opera dell’eroe francese non possono avere spazio in un’operazione come quella andata in scena al Teatro dell’Orologio. Se scremata riducendo la sua eccessiva durata (l’ultimo atto risulta un po’ pesante), I principi che eravamo si presterebbe benissimo come introduzione per i giovani alla lettura del capolavoro di Exupéry. In questo senso bisogna riconoscere a Piotti la capacità di aver saputo scegliere quali parti del libro estrapolare, dato che il testo, soprattutto per un’operazione così a basso costo, non si presta ad una trasposizione teatrale. Intelligente anche l’utilizzo dei “prop” che vengono usati scena dopo scena stravolgendo il loro impiego originario.
Il cast, composto da giovani, è per lo più solido anche se poco equilibrato, ed è sulle loro spalle che si regge tutto. Il ruolo del protagonista è affidato a Michele Balducci. Attore dal volto interessante e in linea con il suo personaggio, anche se a tratti risulta eccessivamente piagnucoloso e sopra le righe. Anche se si ha la netta impressione che Piotti, in questo senso, abbia voluto imprimere a tutti e quattro gli interpreti uno stile unico, omologante nella ricerca incomprensibile di una omogeneità recitativa. Ad interpretare la sua “rosa”, in un ruolo/non ruolo metaforico, è la bionda Letizia Letza, che appare in pochi momenti seppur essenziali. Il volto vagamente volgare e appesantito dal trucco eccessivo non si presta al suo ruolo che funge, come si era detto, più da manifestazione simbolica che da vero e proprio personaggio.
Sull’altra “sponda” troviamo il lato più folle del quartetto e cioè i due ciceroni del principe-impiegato nel mondo stellato delle nostre coscienze: Il maestro dei sogni e L’assistente. Il secondo interpretato dalla bella e brava Enrica Nizi, a cui tra l’altro viene rilegato il ruolo più fisico, tant’è che è proprio a lei che vengono affidati i vari spostamenti dei mobili/scenografie sul palco in un interessante ribaltamento di ruoli. Chi però ruba la scena a tutti è l’attore calabrese Antonio Calamonici, dotato come pochi attori in questo paese di un carisma naturale e spontaneo. Calamonici, con una recitazione istintiva, dona al suo personaggio una vena di follia ed un’animalità che non diviene mai macchiettistica o eccessivamente sopra le righe, dimostrando tra l’altro tempi comici non comuni. In un paese che lascia che il suo talento appassisca, non c’è da stupirsi che attori come Calamonici non abbiano la notorietà e lo spazio che il loro talento merita.
ATTO IV: CONCLUSIONE
“L’industria” (anche se non esiste una vera industria) dello spettacolo italiano, con il suo incessante flusso di commedie e commediole, ricorda un po’ l’orchestrina del Titanic che continua a suonare mentre la nave cola a picco. Come la musica cercava di soffocare le urla lancinanti dei passeggeri che annegavano, i faccioni sorridenti e paciosi dei comici sui manifesti teatrali e le locandine che tappezzano le nostre città, cercano di porre uno strato di vernice sulla facciata di un paese moribondo come il nostro. Quindi mette tenerezza e un po’ di malinconia andare a vedere un’operazione come quella de I principi che eravamo, che nonostante i difetti ha una purezza d’intenti.
Non si può, quindi, che consigliare la visione di questo piccolo traballante, imperfetto, ingenuo spettacolo, grazie ad alcuni interpreti forti e ad alcune idee graziose. Mentre l’orchestrina continua a suonare, il padre del piccolo principe riposa in fondo al Mediterraneo.
Ah sister! Desolation is a delicate thing…
Eugenio Ercolani