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I Professionisti dell’Antitrust

Creato il 03 febbraio 2012 da Conflittiestrategie

Il trinomio dismissioni-liberalizzazioni-privatizzazioni sembra assurgere a nuovi fasti sin dalla fase crepuscolare del Governo Berlusconi; il Governo Monti, però, si sta rivelando, almeno nelle intenzioni manifeste, l’alfiere più entusiasta di una vera e propria crociata a difesa delle virtù autoregolatorie del mercato.
L’inno al consumatore e all’efficienza, lanciato in grande stile a novembre e, tuttora, continuamente replicato,  ha trovato nell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) i corifei più vocianti.
Dopo anni di raccomandazioni e relazioni inascoltate, il Presidente Catricalà aveva addirittura dismesso  l’ululato alla luna, rinunciando alla consueta relazione annuale imposta dalla legge.
Ormai preda di cotanta depressione e incomprensione, per altro ampiamente contrastata dal placebo di lauti stipendi pubblici, non deve aver creduto ai propri occhi assistendo ai poderosi assist forniti dalle recenti prescrizioni della Commissione Europea e dai roboanti annunci dell’intera compagine governativa attualmente in carica.
Di rinnovato entusiasmo e fervide aspettative  è infatti pervasa la “SEGNALAZIONE ai sensi degli artt. 21 e 22 della legge 10 ottobre 1990, n. 287 in merito a: Proposte di riforma concorrenziale ai fini della Legge annuale per il mercato e la concorrenza anno 2012 Inviata al”le cariche istituzionali.
In un delirio di potenza, la relazione arriva a proporre addirittura valore vincolante a gran parte dei pareri espressi dall’AGCM sui singoli atti della pubblica amministrazione.
Dopo  quelli dell’antifascismo, dell’antimafia e dell’anticorruzione, seguiti più dimessamente da quelli della privacy, una nuova categoria di templari sembra assurgere al ruolo di paladini della dignità e del futuro del paese: i professionisti dell’ANTITRUST.
A dire il vero, il progressivo scadimento economicistico dei criteri di scelta di queste figure esemplari lascia intravedere l’altrettanto progressiva povertà di prospettive di cui è capace la classe dirigente italiota, costretta ad appoggiarsi sempre più platealmente, per sopravvivere, su spalle straniere.
Sta di fatto, però, che l’Autorità si propone, con ostentata ambizione, come musa ispiratrice di Monti e Passera.
Il documento suggerisce al Governo che, senza crescita, gli sforzi lodevoli in materia di risanamento delle pubbliche finanze rischiano di vanificarsi; che la crescita virtuosa può essere avviata solo da un processo di liberalizzazioni e privatizzazioni che liberi il paese dal fardello degli interessi corporativi.
Sull’effettiva originalità di questi suggerimenti nutro qualche sospetto; sembra piuttosto l’iniziativa rabberciata di qualcuno che abbia origliato malamente dietro la porta di qualche stanza importante, magari a Bruxelles o di qualche sede di agenzia di rating o del FMI.
Il documento, in effetti, non rappresenta un modello di rigore argomentativo pari alle aspettative che vorrebbe suscitare.
Il punto di partenza canonico è quello della difesa e della valorizzazione del consumatore; a loro volta la difesa e la valorizzazione sono consentite dal riconoscimento di specifici diritti dell’acquirente, ad esempio la class action, sia, soprattutto, dalla presenza di più venditori nel mercato.
Più una teoria sociale, però, tende a fondarsi su un solo aspetto dell’indole umana, più atomizza le relazioni sino a ridurle tra individui, siano essi persone fisiche o giuridiche, più riconosce ad essi il carattere di legge naturale, tanto più questa si rivela inadeguata e tende a piegare i vari elementi della realtà o a rimuoverli in caso di evidente contraddizione.
L’homo oeconomicus non sfugge a questi limiti e forzature, tanto più in una fase di destrutturazione e ristrutturazione delle relazioni; diventa, anzi, un fattore assolutamente regressivo di interpretazione dei conflitti.
Nel suo piccolo e nella sua miseria, la “SEGNALAZIONE” dell’AGCM non sfugge a questo destino.
Se mantiene una parvenza di credibilità quando tratta della liberalizzazione delle professioni, l’Autorità perde ogni rigore analitico e propositivo quando si avvicina al tema della liberalizzazione e privatizzazione dei servizi locali, ogni credibilità quando affronta il tema delle grandi reti nazionali di servizi.
In realtà, l’unico giochino che sembra interessare ai nostri è quello dell’atomizzazione massima possibile degli attori sui mercati e della segmentazione massima possibile dei mercati stessi all’interno dei quali l’equilibrio deve essere raggiunto da atomi (individui) in conflitto sulla base dell’esclusivo interesse individuale, il più possibile liberi da aggregazioni vincolanti e condizionanti; qualcosa che in natura non esiste, suggerito proprio da chi ritiene “naturale” il mercato.
Ogni altro fattore diverso dall’utilità economica, specie di natura costrittiva, tendente a influenzare e determinare le scelte dell’individuo e condizionare l’agibilità dell’arena in condizione di disparità, viene ignorato, negato o rimosso.
Un approccio da intellettuali di periferia lontano da quello stesso pensiero economico liberale sviluppatosi, negli ultimi anni, nel centro dell’impero, il quale riconosce ai costumi, ai condizionamenti psicologici, al bagaglio culturale, alla collocazione sociale, quindi ai gruppi, un ruolo nella formazione delle scelte; tutti fattori che consentono a quest’ultima corrente di pensiero di accettare interventi e regole limitativi sia all’interno dei mercati nazionali, sia nel rapporto tra di essi.
Per non parlare, poi, del ruolo riconosciuto, anzi disconosciuto, della politica, intesa come disegno strategico e tattico, preminente sugli altri fattori, condotto da gruppi strutturati dinamici in equilibrio conflittuale tra di essi.
Per i primi è un fattore inesistente e giustapposto se non nei suoi connotati negativi legati alla corruzione connaturata alla sua invadenza e alla necessità di tenersi quanto più alla larga possibile dal mercato e dall’economia; per i secondi è un fattore tollerato, ma solo per consentire l’ingresso stabile nel mercato, in particolare quello globale, degli attori inizialmente più deboli se non insignificanti e sempre nel rispetto delle particolari vocazioni di ciascuno.
Non è probabilmente un caso che gli assoluti puristi trovino maggiore spazio e adesione entusiasta nei paesi più subordinati e più propensi nell’affogare nel cosmopolitismo apolide la propria remissività agli interessi nazionali sì, ma dei paesi più forti; lo trovino anche in quegli organismi preposti alla gestione del predominio del paese predominante; per questi ultimi, però, è solo una scelta tattica e negoziabile legata al peso effettivo dei paesi rivali e alla “realpolitik”.

Torniamo, ahimè, alle cosucce di casa nostra.
In nome dell’ideale di uguaglianza tra i diversi singoli attori nel mercato e della tutela del suo re e sovrano, il consumatore, i nostri paladini-professionisti vorrebbero l’abolizione degli ordini professionali tra i professionisti e gli autonomi, la liberalizzazione di tariffe, modalità ed orari dei servizi, la cessione a privati della gestione dei servizi pubblici, in quanto il pubblico è sinonimo di inefficienza, spreco e corruzione, la segmentazione orizzontale e verticale delle grandi aziende strategiche ed essenziali di beni e servizi.
Per questi signori, però, stando almeno alle apparenze, le liberalizzazioni e le privatizzazioni da strumento, per quanto riduttivo, per migliorare e dinamizzare il paese sono diventate una religione, un fine cui piegare la condizione di milioni di persone.
Così, in maniera quasi impercettibile, man mano che il campo di intervento si fa più complesso, l’attenzione dell’AGCM si concentra dalla tutela del consumatore, predominante con la liberalizzazione delle attività più atomizzate, alla incentivazione delle opportunità di investimento privato e della formazione imprenditoriale nella privatizzazione dei servizi pubblici locali, per passare paradossalmente al diretto sostegno economico e normativo pubblico all’intervento privato, addirittura di singoli privati, nelle reti di beni e servizi strategici nazionali.
La cruda realtà impone sempre un adattamento incoerente e contraddittorio di scelte dettate da furore ideologico; se a questo, scusate la caduta di stile, si aggiunge la sudditanza psicologica dettata dalla difesa di una posizione e di uno stipendio (450.000,00-quattrocentocinquantamila- più 96.000,00 euro annui) del tutto ingiustificati rispetto al lavoro prodotto dall’Autorità in venti anni, il quadro giustificativo di queste incongruenze rispetto agli idealtipi è pressoché completo.
La rivendicazione di neutralità e le forzature dogmatiche prima o poi tendono a trasformare giudici ed arbitri contemporaneamente in giocatori.
Se da anni, qui e là, sulla stampa appaiono “inviti alla trasparenza” rivolti agli stessi “trasparenti” qualche inquietudine dovrebbe emergere; se a quegli inviti non seguono denunce dettagliate, è solo perché al desiderio di giustizia si surroga l’ambizione frustrata a partecipare al banchetto.
Non si riesce a comprendere altrimenti l’accanimento unilaterale verso una categoria ridotta ed in grave crisi come quella dei tassisti, quando gli operatori nel mercato del trasporto urbano e intraurbano di persone sono variegati (noleggiatori, abusivi, bus e tram di linea, metropolitane) e le condizioni di operatività della circolazione sono fattori altrettanto importanti nel determinare il mercato; nemmeno si comprende come, a fronte di misure comprensibili ma ancora limitate, rispetto alla forza dei vincoli corporativi, sul potere disciplinare e di formazione tecnica degli ordini professionali, si consenta la formazione di società forensi anche con soci esterni alla professione. Eppure la semplice visione di qualche film americano sull’argomento dovrebbe essere sufficiente a svelare le dinamiche lobbistiche alimentate da questo tipo di organizzazione.
Ancora, non si riesce a spiegare la differenza di trattamento riservata a farmacisti o notai, a prescindere dalle ragioni degli uni e dai torti degli altri; come anche il gran clamore sulla riorganizzazione della vendita al dettaglio dei carburanti che, nel caso di estrema liberalizzazione, porterebbe ad un beneficio di appena 5/10 centesimi a litro di carburante e, molto probabilmente, alla costituzione surrettizia di un organismo intermedio, probabilmente l’ennesimo carrozzone, dal peso economico e politico indefinibile, in grado di raccogliere il carburante dai fornitori internazionali e rivenderlo ai dettaglianti.
La schizofrenia di comportamento e il divario tra aspettative e risultati sono il risultato di gravi mistificazioni e carenze, attributi mediocri tra loro compatibili:
    la totale assenza di una qualsiasi analisi seria della reale composizione dei ceti professionali autonomi e delle dinamiche di funzionamento delle attività. Diversamente il garante avrebbe scoperto che la maggior parte delle attività professionali sono liberalizzate e addirittura senza ordini professionali; il carattere corporativo dell’organizzazione e la proliferazione di alcuni ceti sono direttamente proporzionali ai livelli di disservizio e farraginosità dell’amministrazione pubblica e di corrispondente parassitismo;
    il libero mercato, in realtà, più che essere un confronto tra eguali in una condizione astratta, verosimile solo nelle narrazioni sulle prime pagine dei trattati di economia, è un’arena che sostituisce a cartelli e sodalizi pubblici, cartelli e sodalizi più o meno informali, ma spesso altrettanto efficaci
    quella politica che si vuol cacciare dalla porta principale, la si fa rientrare, di bassa lega e vincolata a contrattazioni più o meno confessabili, dalla porta di servizio. Rimane del tutto ignorata una politica di coesione che potrebbe salvaguardare e qualificare gran parte di quei ceti, come ad esempio la tutela e valorizzazione dei centri storici per la salvaguardia di artigiani, professionisti e commercianti urbani

Le raccomandazioni sui servizi pubblici locali

Già a questo livello, le finalità politiche di questo documento appaiono più chiare.
Si sancisce l’obbligo di affidare a società private la gestione dei servizi e la necessità di giustificare con dovizia di argomenti eventuali scelte controcorrente, riconoscendo al privato la patente di onestà, virtù ed efficienza disconosciuta al pubblico, nelle sue varie forme. In Italia, in realtà, non mancano esempi di gestione pubblica efficiente dei servizi, come pure di gestione privata inefficiente e parassitaria; il tratto predominante è, comunque, la collusione imperante tra pubblico e privato nella spartizione delle “royalties”, sia in benefit che in denaro. Basterebbe un excursus nella gestione dei servizi locali di distribuzione dell’energia, di nettezza urbana, ad esempio, per farsi un’idea delle dinamiche. Sarebbe sufficiente l’introduzione di limiti nei diritti di prelievo e di criteri privatistici rigorosi di gestione delle risorse, con buona pace dei difensori romantici della gestione pubblica, in combutta spesso involontaria con gli interessi parassitari annidati in essa, e lasciare liberi gli enti pubblici di decidere il tipo di affidamento. La decisione, tra l’altro, non può prescindere dalla presenza effettiva di capacità imprenditoriale e di capitali privati. La stessa enfasi con cui si sottolinea l’opportunità di investimento offerta ai privati piuttosto che il possibile vantaggio economico per l’utente indica, piuttosto, la finalità politica di formazione di un blocco sociale su basi nuove attorno a risorse pubbliche. Le possibilità di degenerazione sono, per altro, molto elevate, legate anche alla divaricazione tra la durata degli appalti e la necessità di investimenti ammortizzabili in tempi lunghi e, quindi, presumibilmente a carico della collettività; per di più si rischia di dirottare ulteriori risorse da settori strategici e importanti di tipo industriale e di impedirne ancora una volta la formazione nelle zone arretrate del paese. È comunque un campo aperto, orientato a varie soluzioni a seconda della duplicabilità o meno delle strutture e delle opzioni politiche presenti tra chi punta alla creazione prevalente di grandi aziende multiservizio, maggiormente valorizzabili sul mercato azionario, come pensa il PD oppure ad una frammentazione esasperata con l’idea che sia il mercato a creare la dimensione ottimale finale.

Le grandi reti nazionali

E’ il settore cruciale  dove si giocano ampie quote residue di sovranità del paese e di corrispondente peso nel contesto geopolitico.
Il dato più impressionante e sorprendente, per un organismo che fa del mercato l’oggetto ventennale di attenzione e venerazione, è l’analisi e la proposta di intervento sul mercato nazionale del tutto avulse dal contesto degli altri mercati, senza alcun accenno alle interconnessioni con gli altri mercati nazionali almeno della Comunità Europea.
Non solo! Si arriva ad ignorare totalmente se non a mascherare o negare il valore e l’uso politico strategico che le élites fanno del controllo dell’estrazione e fornitura di energia in primo luogo e delle grandi reti di servizio poi.
L’importante è inventare in qualche maniera un mercato nazionale segmentando l’operatore di casa, aprendo ad altri soggetti senza verificare l’avvio di processi corrispondenti negli altri mercati europei, riducendo l’ambito dei servizi da garantire uniformemente su tutto il territorio nazionale.
In questo contesto vanno interpretate le proposte dell’AGCM  nel settore del gas e petrolio, dell’energia elettrica, del trasporto ferroviario e di Poste Italiane.
Sul primo l’Autorità raccomanda in particolare la separazione di ENI da SNAM, l’ente gestore della rete distributiva nazionale, in modo da consentire a quest’ultimo la fornitura dal produttore più economico e lo sviluppo dei mercati spot. Processi di separazione analoghi sono già attuati in quei paesi dove le multinazionali possono godere del sostegno aperto degli stati di radicamento nello scacchiere geopolitico; sono osteggiati nei paesi dove operano le compagnie nazionali. L’ENI, sino ad un paio di anni fa, si trovava in una posizione intermedia immediatamente frustrata dalla svolta dell’amministrazione Obama nei confronti della Russia e nel Grande Medio Oriente. In mancanza del sostegno di uno stato forte, la gestione del mercato nazionale rappresentava una carta da giocare nella contrattazione; gli accordi con la russa Gazprom prevedevano, infatti, l’ingresso reciproco nei mercati nazionali e l’utilizzo della rete italiana come hub del mercato europeo; questo ruolo avrebbe permesso la rinegoziazione dei prezzi del gas, non a caso l’ultima profferta di Putin prima del congelamento dei rapporti. In questo contesto, la separazione rappresenta il prodromo dello sganciamento di ENI dal controllo italiano; il rischio di una migrazione del controllo strategico, sulla falsariga di quanto avvenuto con FIAT ed Edison, è ormai gravissimo ed imminente; nel migliore dei casi il controllo rimarrebbe al prezzo di una totale subordinazione ai disegni atlantici. Lo stesso ricorso strategico ai mercati spot potrebbe rappresentare un vantaggio immediato, ma una fragilità e ricattabilità nel lungo periodo; un po’ come accaduto con l’internazionalizzazione del debito pubblico. Ogni accenno su eventuali altre cause degli alti prezzi dei combustibili legati alle scelte delle fonti è appena adombrato e subito rimosso. Tutto questo in nome di una concorrenza virtuale, facilmente risolvibile con accordi di cartello, dove le scelte politiche e strategiche assumono un ruolo di primo piano.

Un accenno ad altri due settori cruciali, oggetto di attenzione:
sul trasporto ferroviario, laddove una privatizzazione unilaterale priverebbe Trenitalia di un’arma formidabile per tentare l’ingresso nelle altre reti nazionali europee; la stessa divaricazione tra i tempi di affidamento delle concessioni regionali (5/6 anni) e i tempi di ammortamento degli investimenti sui mezzi  di trasporto lascia spazio ad uno sfruttamento predatorio delle concessioni senza nessun beneficio economico per gli utenti. Curioso l’appello rivolto con qualche imbarazzo al Governo per garantire un alto livello di investimenti pubblici nella rete ferroviaria in modo da non scoraggiare l’ingresso dei privati; scandaloso l’assoluto silenzio della gestione della concessione a NTV, azienda con sembianze italiche e sangue francese, nonché del futuro disastroso riservato ad Ansaldo Treni. Il disastroso esempio britannico deve aver acuito lo spirito omertoso dei paladini della trasparenza del mercato.
Su Poste Italiane ho già detto ampiamente in un articolo di settembre scorso; nessuna attenzione sul ruolo strategico della disponibilità di una rete capillare utilizzabile per svariati servizi. L’unica preoccupazione è riservata alla possibilità di favorire la concorrenza locale, quindi nelle sole zone lucrative, nei servizi postali e il danneggiamento di un servizio universale in grado di garantire una qualità uniforme accettabile delle prestazioni su tutto il paese.
Ciò a cui mira, in maniera subdola, l’AGCM è la neutralizzazione di un concorrente agguerrito del sistema bancario e l’eliminazione di una delle poche fonti autonome di finanziamento del debito pubblico e, in futuro, delle attività industriali mirate.
In tutte queste proposte rimane una costante non strategica per il paese, ma importante per le condizioni di vita: la rottura del sistema di contratto unico di lavoro di categoria obbligatorio per ogni sistema merceologico.
Un elemento di precarizzazione e balcanizzazione ulteriore della condizione lavorativa e professionale che lascia intravedere il furore distruttivo e destabilizzante che muove queste strategie; tutto questo con la complicità più o meno volontaria della quasi totalità della dirigenza sindacale impegnata, ormai da decenni, ad arroccarsi nelle proprie ridotte sempre più esigui ed isolate, piuttosto che gestire anche le fasi di arretramento mantenendo condizioni di diritto e materiali paragonabili nei vari ambiti lavorativi.
Per concludere, quella che è apparsa una corrispondenza di amorosi sensi tra Monti da una parte e Catricalà e Pitruzzella dall’altra si è rivelata una relazione occasionale tra un signorotto e le proprie fantesche. Non è un caso che sia Monti che Passera abbiano strozzato sul nascere, con un semplice cenno, l’unico acuto, fuori luogo, di un coro per il resto mediocre e cialtrone: le misure di incompatibilità e non cumulabilità di incarichi nel sistema finanziario-bancario.
Quale esito diverso ci si sarebbe potuto aspettare, altrimenti, visto che persino ad Obama è scivolata la maschera di tribuno proprio sugli intrecci finanziari.
Del resto Monti ha garantito ad ogni componente della compagine il proprio momento di gloria e solo ad un paio l’interesse esclusivo.
Da politico scaltro, per meglio dire illuminato, ma di luce aliena, ha cercato di governare il furore cialtrone dei professionisti della concorrenza con un appello all’apertura degli altri mercati nazionali europei, sulla base, ovviamente, di direttive della Commissione Europea affidate nell’attuazione alle diverse sensibilità dei Governi.
Come da copione da quaranta anni a questa parte e senza alcun intervento strategico e politico, fondato su una sia pur minima autonomia dalle scelte americane, propedeutico alla creazione del mercato europeo.
Non si illuda, Catricalà! La competizione è senza storia; la prossima corrispondenza amorosa, sia pure asimmetrica, non riguarderà lui. Per parecchio tempo la scena sarà sostenuta da un rivale ben più agguerrito: Befera. La dote che è in grado di portare non ha equivalenti.
Anche l’alcova ha ben altro valore: l’Agenzia delle Entrate


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