Marcela Serrano affronta la tragedia dei bambini rapiti per venderne gli organi o per essere dati in adozione a famiglie facoltose. La protagonista, una donna di umili origini che vive in campagna, partorisce in ospedale una bambina, ma dopo qualche giorno le dicono che la figlia è morta in seguito a una febbre violenta. Lei non si rassegna, si convince che la piccola sia ancora viva, e decide di agire. Con l’aiuto di una giornalista scopre che nell’ospedale dove era stata ricoverata ci sono troppe morti sospette e trova una donna pronta a testimoniare di aver sentito i medici parlare chiaramente di un rapimento: il sospetto di un traffico illegale di adozioni e di organi diventa quasi una certezza. La protagonista, insieme ad altre madri nella stessa situazione, decide di creare un’associazione che si batte per portare alla luce gli orribili crimini. Un giorno, durante un sit-in, vede una bambina tenuta per mano dalla moglie del ministro degli Interni, è certa che sia sua figlia. In un impeto di gioia rabbiosa l’abbraccia e tenta di strapparla alla falsa madre. Immediatamente arrestata, viene internata in un ospedale psichiatrico. Lì lotta per non impazzire e con caparbietà non rinuncia all’idea di riavere sua figlia.
Un testo troppo semplice e breve che non riesce a rendere appieno tutto il dramma che sta dietro ai rapimenti dei bambini e ai traffici illegali di organi, tematiche agghiaccianti che sembrano troppo distanti da noi, ma che, invece, sono lì, latenti, pronte a esplodere in tutta la loro sconvolgente vergogna.
Di sicuro, l’elemento preponderante di questo romanzo breve è il fortissimo senso di abbandono e sconforto che la protagonista del libro alterna alla rabbia, al rancore, al timore di non riuscire a sconfiggere il sistema “malato” in cui vive, un sistema in cui, come sempre, a pagare sono solo i più deboli, nella maniera più subdola e viscida immaginabile: la sottrazione di un figlio compiuta con il “beneplacito” di chi sta al potere.
Il libro, però, è anche un inno all’azione, alla forza. All’amore. Sentimenti, questi, che si palesano con il senso di rivincita, con la coalizione tra donne che si creano uno spazio di ribellione per ribellarsi all’assurdità delle atroci tragedie che sono costrette a subire.
Tutte le pagine sono un lungo e incessante susseguirsi di azioni messe in atto dalla protagonista, azioni anche illegali e immorali, per ritrovare la figlia e per riprendersela, strappandola all’unico nucleo familiare da lei conosciuto. E si insinua un dubbio nel lettore: se, invece, avesse ragione Flor, una delle donne travolte da questa tragedia che è la privazione violenta del proprio figlio, che preferisce “fingere di dimenticarsi” di questa creatura piuttosto che agire per rovinargli l’esistenza pretendendo di ritrovarlo e strapparlo da quella che lui conosce e ama come la “propria famiglia”? Fino a che punto il fine giustifica i mezzi?