Da "A GRANGOLA!", cerimonia di premiazione del concorso letterario di Villa Petriolo 2010 La gaia mensa
Il giornalista enogastronomico Leonardo Romanelli premia Michele Raul Trojano e Fabrizio Giunta, terzi classificati, ex aequo, al concorso letterario di Villa Petriolo 2010 "La gaia mensa"
Pari merito a Fabrizio Giunta e Michele Raul Trojano al quarto concorso letterario di Villa Periolo "La gaia mensa": i loro bei due racconti si sono meritati la medaglia d'argento sul podio di "A Grangola!" ed una fornitura di magnum del nostro vino. Tanti complimenti ancora a Fabrizio e Michele!
Golagioconda - 23 06 2010 - I Vincitori del Concorso Letterario 2010 di Villa Petriolo
Fabrizio Giunta, nato nel 1950 a Camaiore (Lucca), è pensionato ed abita a Signa (Firenze). La ricetta protagonista del racconto è "la Scarpaccia della Saida". La Saida è la madre di Fabrizio, 95 anni compiuti.
Da I piatti de LA GAIA MENSA. Concorso letterario Villa Petriolo 2010
Nelle parole di Enrico Ghezzi la sintesi del giudizio espresso dalla giuria.
La scarpaccia. La lingua cerca una cadenza da cantastorie, tenendoti all’ascolto in un’aura di ricchezza povera, oscillando tra persona leggendaria e sapienza dell’orto. Reduci da crimee di favola, leggiamo con passo doppio anche noi. Bambini, la ricetta si tramanda e racconta per la nostra attesa, si ripete e dissolve nelle orecchie golose.
Da Giuria concorso letterario Villa Petriolo 2010
III PREMIO
“LA SCARPACCIA” di Fabrizio Giunta
Agnolo Bicicchi detto “Reduce”, la gamba sinistra assai più corta della destra, un orecchio arricciolato come una foglia di scarola, un occhio opaco come calce spenta, ricordi della guerra di Crimea, diceva lui. Vattelo a pesca se vero o falso ma ormai per tutti era il Reduce. Nessuno sapeva nulla di questa Crimea. I più astuti pensavano fosse la cresta dei cavalli, insomma una guerra fra cavalieri. I bimbetti lo seguivano di nascosto per vedere se fosse vero che quella gamba più corta ogni tanti passi lo portava a fare un giro completo su se stesso. Qualcuno giurava fosse vero altri ci ridevano sopra. In capo al giorno di giri su se stesso ne faceva tanti, specialmente se la favola quotidiana che andava narrando era assai divertente e gli fruttava copiosi gottini di rosso. “Con garbo e con rispetto” diceva alzando ogni gottino, “lo porto al labbro e me lo godo drento!” Cancellava l’immancabile cerchio rosso lasciato sul tavolo dal fondo del bicchiere e vuoto lo poggiava allo stesso identico posto, pronto per il fiasco.
“Anco settanta e sei sfregi rossi ha terso dal marmo e ancora prillava sulla gamba sana fino a far vento! Ma pur sempre in senno, vivo e verde!”
Non sempre mendicava, a volte cercava lavoretti.
“Compare, capite la gamba matta mi dole e mi martiria! Vangare un posso, ma cogliere la frutta volentieri!”
“Va bene, ma or che siete sull’albero fischiate la fanfara degli zuavi di Sardegna, che mi piace assai!”
“Fischio, fischio, ma ogni tanto fatimi ripigliar fiato!”
“Fiato, fiato.. hai voglia tu, ma a bocca chiusa!”
Tutti sapevano che si sarebbe servito, ma con riguardo, senza abusare.
Non pensate fosse un vagabondo, perché anche lo fosse stato nessuno lo avrebbe mai additato. Era l’ultimo bardo errante.
“Il porco del Ghianda è grasso come un tordo”
”Alla cantina di Geo è arrivata la botte dalle Pianore”
Notizie che portavano immancabilmente il Reduce a convergere sul bersaglio. Spesso era difficile riuscire ad ottenere un boccone, allora mugugnava: “O come mai nelle famiglie c’enno sempre più bocche da sfamare che braccia a faticare”
Quel giorno di fine giugno sarebbe entrato nella memoria, eppure la strada bianca che saliva ai Volponi era la stessa. Le buche dell’inverno appena rattoppate dal badile di Buccio, lo stradino, con pietrisco di cava rugginoso. I margini erbosi ben profilati, le scanalature degli sgorghi ogni venti passi liberate dalle erbacce. Oltre le siepi di biancospino i piccoli appezzamenti freschi di rugiada, curati come figlioli. Intorno alle case modeste, tirate su con sassi di canale, gli orti vibravano di colori e di aromi. La gloria di ogni famiglia. Ognuno vantava zucchine più tenere, pomodori più sugosi, cipolle amabili come il pane, carote dolci come il giulebbe, fave profumate di caciotta, porri grandi come manici di zappa. Un tripudio di vanità e d’orgoglio.
Ogni passo del Reduce una nuvola di polvere. Gamba sana nuvola grande, gamba matta nuvola piccola. Aiutato dal bastone avanzava deciso verso la borgata dei Volponi, immaginate voi perché era detta cosi. Nell’aia dell’Estè le fascine si accumulavano da giorni, lui conosceva bene la famosa focaccia dell’Esterina. Si era svegliato con quella sensazione, un sapore ormai lontano che andava rinverdito.
In lontananza sulla collinetta l’aria intorno al fumaiolo del forno vibrava. Bolla calda tremolante e vasta, da grande infornata. Pane, focacce e magari patate alla cenere.
“O Reduce, che siete in caccia?”
Il saluto di una donnetta tutta grinze lo scosse dai pensieri mangerecci.
“O Bianca, non v’avevo visto, lì nascosta tra le vostre belle cipolle!”
“Peccato” continuo il Reduce “che ci sono più maschi che femmine. Avete sbagliato la luna di semina!”
“Maschi? Quali maschi? Che maschi?”
“Via lo sapete anche voi che la cipolla che gira a maschio, non rende. Il cipollotto non cresce e il bigiglioro diventa duro e assai indigesto! Laggiù, quello dalle foglie più scure è un maschio, va svelto. Tanto ruba pane alle sorelle e non produce nulla!”
La donna con un guizzo s’era tuffata con la testa tra le foglie e spulciava le pianticelle con dita lunghe e nervose.
“Santa Vergine, è vero! Ecco il bigiglioro, è un maschio!”
Un gesto deciso e la cipolla fu sradicata e buttata di fianco alla proda.
“La più avanti ne vedo altre due, e ancora una e poi tre…”
Maschi di cipolla schizzavano fuori dalla terra come grilli e si andavano accumulando ai bordi del solco.
“Ecco le abbiamo levate tutte!” disse il Reduce, prendendo fiato come se fosse stato chinato a faticare.
“Proprio un bel lavoro di repulisti! Quelle rimaste verranno su sane e grosse come poponi!”
“Ecco a Voi!” disse la Bianca.
Tre cipollotti gli volarono ai piedi e finirono nella sua bisaccia.
Nuvoletta, nuvolona. Passo a passo su per il colle.
Alla curva del bosco d’acacie, oltre una siepe di rosa canina, c’era la più bella distesa di zucche che mai si potesse vedere. Tra le foglie di zucca spuntavano decine di boccioli e zucchine già pronte, ognuna col suo bel fiore giallo intenso. Farfalle e api entravano e uscivano in un delirio di nettare e di polline.
“Quelle si che mi farebbero comodo” penso il Reduce, scostando con la mazza le rose della siepe.
Nascosta dai panni che andava via via stendendo riconobbe la moglie di Biagio, il padrone dell’orto.
“Buon giorno Angelina!” le gridò agitando la mazza per farsi vedere.
“O Reduce, buon dì.. che siete in caccia?”
Allora è un vizio, penso lui, mentre scavalcava la siepe avvicinandosi alla donna.
“Avete qui delle piante che fanno impressione, chissà la notte che concerti vi fa il Linchetto quando zufola con le foglie di zucca!”
“Via! Non mi fate agitare. Che c’entra il Linchetto con le mie zucche? Di che zufolare parlate?”
Il Reduce rimase zitto e pensieroso.
“O Reduce, suvvia, perchè mi fate impressionare? Non ho nulla da spartire con quello spiritello dispettoso. Il Linchetto qui non si è mai visto!”
“Mi permettete di farvi vedere e sentire? Non faccio danni!”
“Avanti” disse l’Angelina avanzando preoccupata oltre i panni stesi.
Il Reduce scelse alcune foglie di zucca. Lavorando con il suo coltellino le ripulì dalle spine poi con un colpo preciso attento a non forare la canna separò la grande foglia dallo stelo. Praticò un’incisione netta e apri il taglio come fosse l’ancia di un clarinetto. Accostò alle labbra gli steli cosi preparati a mo’ di zufolo a canne e iniziò a suonare una nenia lenta e misteriosa. Rievocava il tuono, il frusciare del bosco, pioggia sulle foglie, vento tra le fronde, notti senza luna. Un pentagramma segreto e primordiale.
“Ecco questo è lo zufolo del Linchetto. Un lamento d’amor perduto”
Angelina riconoscente, aveva le mani colme di fiori di zucca e qualche bella zucchina.
“Ecco, prendete, ve lo siete meritato. Non ho mai sentito niente di tutto questo. Ci starò attenta. Ora che mi avete detto di cosa si tratta se mai lo sentirò non avrò paura!”.
Nell’aia dei Volponi l’Este’ stava coprendo con un telo l’ultima cesta di pane già caricata sul ciuco di Meo. Il Reduce ebbe un fremito. Era arrivato tardi!
L’Esterina, furbetta e maligna, mostrò le mani vuote e si strinse nelle spalle.
“Troppo tardi!”.
“Macchè! Sono proprio arrivato in tempo per usare il forno vuoto e caldo”.
“Che ci fareste voi col forno caldo? Vi cocete le vostre scarpacce polverose?”
“Affatto! Se mi date agio vi faccio stupire!”
“Fate pure!” rispose arricciando il naso.
Cipolle, zucchine e fiori di zucca furono lavati e sminuzzati, messi nel mastello con un goccio d’acqua e la poca farina rimasta sull’asse della spianatoia un pizzico di sale, scorta personale, il tutto mescolato con vigore. L’impasto denso venne steso in una teglia da focaccia ancora tiepida e unta, l’olio avanzato da altre teglie appena usate sgocciolato sopra e via nel forno.
“Bell’intruglio avete fatto. Che v’aspettate?”
“Mal che vada mi mangerò la scarpaccia, come m’avete consigliato voi!”
“Via, via bambini, è tempo di aprire il forno. La Scarpaccia è cotta!”
Disse zia Elide ai mocciosi seduti ai suoi piedi che attendevano golosi la fine della storia.