Siete mai stati nel Maine? No? Ok, tranquilli, non c’è bisogno di comprare un biglietto seduta stante. Andate in libreria, o, se preferite, andate nell’internet, e comprate un libro di Elizabeth Strout. Magari l’ultimo, che pare che sia stato il suo capolavoro, uscito da qualche mese con Fazi, I ragazzi Burgess.
Far parte di una famiglia significa, il più delle volte, condividere momenti brutti. Ed è per questo che Susan chiama il fratello maggiore quando suo figlio Zachary le confessa di esser stato lui ad aver lanciato una testa di maiale ancora semi congelata all’interno dell’unica moschea di Shirley Falls. Diciamo, non proprio uno scherzo da ragazzi, visto che Zach è più che maggiorenne e la – decisamente WASP - città vive un periodo difficile a causa dell’arrivo di una comunità numerosa di somali musulmani. E quando i parenti chiamano la norma vuole che si è sempre sul punto di far qualcos’altro, perlopiù piacevole: infatti, Jim sta per partire in vacanza, e sua moglie Helen non ha molta voglia di rimandare tutto per un, certo crudele, “scherzo da ragazzi”, così è Bob, il secondo fratello e gemello di Susan, a raggiungere la sorella nel momento di difficoltà.
La famiglia Burgess, scopriamo, è una famiglia che il dolore l’aveva conosciuto subito, da vicino e in un modo terribile e traumatico, coinvolgendo direttamente Bob ma segnando tutti e tre i fratelli, indelebilmente legati non solo dal sangue, ma dall’onta e dall’orrore. Ed anche Zachary, il colpevole e motore di tutta la storia, non è uno scapestrato pazzoide come ci si aspetterebbe, ma un ragazzo timido, triste, che piange da solo in stanza. Questo è un romanzo fatto di persone, dei protagonisti che danno vita al titolo, innanzitutto, delle loro storie e vite, così come dei loro fantasmi, come il padre e la madre, Barbara, che preferiva Bob su tutti e denigrava continuamente Susan, e delle persone che li circondano, come Pam, ex moglie di Bob, ex chimica e ex (o forse mai) scienziata, una Burgess adottata, o la vicina di Susan, la signora Drinkwater, con il suo maglione lungo sui vestiti di casa. O Abdikarim Ahmed, che giustamente (e non perché attui una scelta politically correct) la Strout dà voce a un esponente di quella comunità nera che sembra aver distrutto l’equilibrio della pigrissima cittadina americana, che parla con la voce di un uomo che si è trasferito dall’altra parte del mondo dopo aver visto orrori inenarrabili (dei quali, ancor più giustamente, la Strout non insiste, che questo non è un romanzo sul razzismo) e lamenta le difficoltà di chi è in una terra incomprensibile tanto quanto la sua lingua, dandogli quella voce che in un paese straniero è negata, perché non si conosce la lingua e non si sa neanche più come chiamare uello che c’è fuori e ciò che si sente dentro.
Più leggevo e più ne ero totalmente conquistata, e ad un certo punto mi sono fermata e mi sono chiesta: “Perché un libro mi piace?”. Tra gli innumerevoli motivi che potrei enumerare, quello che si adatta al caso (e che mi ha fatto finire il libro in men che non si dica) è stato: perché mi fa sentire a casa. E io non abito nel Maine, non ci sono mai stata, né ho due fratelli o nipoti strani, eppure sentivo intorno a me quell’accento che allunga le vocali, (Maine=Meeein). Il modo in cui Elizabeth Strout scrive, l’introspezione di cui è capace, gli spunti di riflessione sui rapporti umani che offre sono talmente tanti che ti ci ritrovi, scopri di aver vissuto situazioni più o meno simili, ed essere giunto alle stesse conclusioni o scopri delle soluzioni diverse; insomma, condividi le sue storie, che diventano tue (distanze e accenti inclusi).
Piacere di avervi conosciuto, Burgess Boys.
Elizabeth Strout, I ragazzi Burgess, Fazi, € 18.50, 2013