Spesso avevano il loro grasso culo semplicemente appoggiato sulla sedia giusta al momento giusto; altre volte sono figli di gente capace o amici di gente strategica. Col vento in poppa vanno alla grande, circondati da vacche grasse e opulente. Cessato il vento, sgonfiate le vele, l’inettitudine se ne fa una scorpacciata e celebra l’ingestione della loro polpa insipida con un debole rutto.
Il problema, come sempre, sta nell’assenza di modestia. Anzi, l’arroganza, la vanagloria e l’ostentazione sono parte determinante della volgarità dell’inetto in posizioni di prestigio.
Volgarità che spesso risiede anche nel pretendere di essere chiamati col proprio titolo (perché il Lei neppure basta), di parcheggiare il turbo-suv in una posizione privilegiata e in bella vista, di citare l’elenco dei propri meriti, titoli e referenze ad ogni occasione possibile (ma soprattutto quando non c’entrano nulla), di non accettare nessun tipo di consiglio o di osservazione (soprattutto dai sottoposti), di non delegare nemmeno le attività più banali perché la rimpiazzabilità non sia sbugiardata.
Mortale poi quando la volgarità si sposa con l’incapacità: di chi chiama l’assoluta confusione mentale “continua innovazione”; di chi camuffa la totale assenza di strategia con “l’imprevedibilità del mercato”; di chi – piuttosto di ammettere un errore di gestione o chiedere aiuto ai competenti – lascia naufragare l’azienda e cerca qualcuno che “compri la baracca”.
Nella mia lunga carriera professionale – e lo dico con mortificato divertimento – sono stata pagata anche per scrivere delle lettere sotto dettatura, come se la lingua italiana mi fosse completamente estranea e io un po’ cerebrolesa; o per chiamare la figlia del maresciallo del paese per darle un lavoro (quando non era la fidanzata del figlio dell’avvocato, e così a seguire). Ricordandovi che sono nata nel 1974, capirete bene che sto parlando dell’Italia di oggi, e non di quella del dopoguerra, ahimè.
I ricchi per caso sono una delle più grosse piaghe della società contemporanea.
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