Lo schema di funzionamento del sistema UBE
Sebbene a passi molto lenti, anche noi ci stiamo abituando a riciclare i rifiuti e recuperare e risparmiare risorse che altrimenti andrebbero perse. Ma c’è chi, in questo ambito, è davvero molto più avanti anche del più ‘ecologico’ di noi cittadini. Non pensate a qualche remoto asceta in stretta simbiosi con Madre Natura, ma alzate gli occhi al cielo: sì, la palma dei meno spreconi, almeno quando sono in orbita, va senza dubbio agli astronauti. Riciclare per loro, più che una scelta, seppure lodevole, è una vera necessità. Davvero poco è infatti lo spazio a disposizione nelle loro navicelle o nelle stazioni orbitanti per accumulare viveri e acqua. Per non parlare del loro peso: ogni chilogrammo che esce dall’atmosfera terrestre ha un costo di trasporto elevatissimo, oggi stimato attorno ai 2.000 dollari.
Ecco allora che ingegneri e tecnici hanno sviluppato, appositamente per le missioni spaziali umane, sistemi di recupero e rigenerazione, soprattutto di liquidi corporei e dell’aria, sempre più sofisticati, efficienti e compatti. In passato, la sfida tecnologica tra le due storiche superpotenze, Unione Sovietica e Stati Uniti, si è disputata anche tra le strettissime e poco riservate pareti dei bagni della stazione spaziale MIR, dello Spacelab e dello Shuttle.
I sistemi della MIR ad esempio, riuscivano a recuperare fino al 70 per cento dell’acqua consumata dagli astronauti, distillando le loro urine e catturando il vapore acqueo prodotto dal loro sudore. L’avvento della Stazione Spaziale Internazionale, più grande e mediamente più affollata rispetto alle precedenti, ha dato un ulteriore impulso a questo aspetto della vita nello spazio, incrementando fino a ben il 93% la frazione dei liquidi trattati e reimmessi nel ciclo di utilizzo dell’equipaggio.
Ma la prossima sfida del riciclo spaziale, almeno per quanto riguarda i liquidi, è quella dei viaggi di lunga durata, come quelli che dovranno affrontare gli astronauti nelle future missioni a Marte. Di questo problema tutt’altro che trascurabile se ne è occupato con uno studio apparso sulla rivista Sustainable Chemistry and Engineering un gruppo di ricercatori, guidati da Eduardo Nicolau, del NASA Center for Advanced Nanoscale Materials all’Università di Puerto Rico, negli Stati Uniti. Nel lavoro viene messo in evidenza come, in generale, i prodotti di scarto di origine umana in un viaggio di lunga durata rappresentino la metà del totale dei rifiuti generati. Ecco dunque che diventa fondamentale riciclare e riutilizzare anche le urine, da distillare per recuperare acqua preziosa, ma non solo.
Partendo dai risultati di precedenti studi, che avevano mostrato come fosse possibile trattare acque di scarto con il processo dell’osmosi diretta e, con l’ausilio di una cella a combustibile, produrre energia, Nicolau e il suo team sono passati alla pratica, realizzando un sistema bioreattore elettrochimico per urea (UBE, Urea Bioreactor Electrochemical system). In pratica, una volta separata l’acqua dalla componente principale dell’urina, ovvero l’urea, questa viene convertita dal bioreattore in ammoniaca. L’ammoniaca poi, iniettata in una cella elettrochimica diventa ‘carburante’ per produrre energia elettrica.
Il dispositivo ovviamente è stato pensato per applicazioni prettamente spaziali, ma come sottolineano i ricercatori “I risultati indicano che il sistema UBE potrebbe essere usato per ogni trattamento di acque reflue contenenti urea e/o ammoniaca”. Con il doppio vantaggio non solo di contenere gli sprechi di un elemento, l’acqua, sempre più prezioso, ma anche di recuperare energia alla fine di questo processo.
Fonte: Media INAF | Scritto da Marco Galliani