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I risentiti

Creato il 10 ottobre 2010 da Lucas
«Il desiderio mimetico punta all'[essere assoluto] di qualcun altro ch'è sempre nei nostri occhi, mentre noi stessi non lo siamo mai, per lo meno ai nostri occhi [esseri assoluti]. Comprendere il desiderio significa comprendere che il suo essere autocentrato è indistinguibile dal suo essere eterocentrato».René Girard, Il risentimento, Raffaele Cortina Editore, Milano 1999 (pag. 166. Traduzione Alberto Signorini).
«E forse nel nostro qui e ora, nell'aria compressa fra la Val d'Aosta e Lampedusa, rischiamo di diventare tutti egospie del risentimento. Ma chi sono le egospie? E cos'è il risentimento? Il risentimento è un misto di rabbia e invidia, coltivata dentro di sé e proiettata sotto forma di spore negli alveoli sociali […] Le egospie emettono un borbottio che parla male di qualsiasi cosa – una rivolta privata contro tutto ciò che esiste al di fuori di sé».Gianni Ricuperati, «Quel deserto pieno di risentimento», Il Sole 24 Ore, 10 ottobre 2010
Allora, noi blogger saremmo dei risentiti perché impossibilitati a essere ciò che vorremo essere, e dunque invidiosi dell'altrui successo, dell'altrui rilevanza; foglie secche all'ombra di alberi sempreverdi. Non è così, almeno non per tutti, e Gianluigi Ricuperati lo sa bene. È chiaro che quando si parla a blocchi, a volte, bisogna generalizzare.
Per parte mia (parlo per me, d'accordo, ma credo di “interpretare” anche il pensiero di molti miei amici blogger) credo di non essere invidioso, né risentito nei confronti dell'altrui successo, per esempio di coloro che hanno scritto un libro e hanno venduto millanta copie, o di coloro che hanno la possibilità di scrivere per qualche prestigioso quotidiano o autorevole rivista. A volte di costoro sono ammirato, altre meno ma, in questo caso, non perché dica, dentro me, «perché lui si e io no?». Infatti io – l'ho già forse detto da qualche parte – non ho alcun libro nel cassetto, nessun manoscritto rifiutato: ho solo una manciata di poesie che una volta (inizi anni '90) ho inviato in via Biancamano ricevendo una risposta garbata di rifiuto. Ero più giovane, spontaneo e avevo i soldi per una assicurata che conteneva fogli sparsi battuti a macchina con delle poesie di minimo spessore.La prendo larga mettendo al centro il mio ego – faccio la spia di me stesso, mi controllo, mi diffido, mi espongo in questo luogo pseudo-pubblico in cui ho la presunzione di diffondere una voce, flebile voce, che dice la sua opinione sui vari eventi, culturali o meno, che accadono, che mi attraversano e che mi fanno, appunto, parlare, non solo ascoltare o leggere. Prendo parte, dunque, minima parte, ripeto, ma parte che potrà essere (eventualmente) apprezzata o deprezzata solo se essa viene detta, espressa. Il mondo della cultura non può lamentarsi delle voci; dovrebbe lamentarsi solo se esse divenissero un coro malefico e unanime, il solo capace di portare sugli altari o di condurre al patibolo... le voci del mondo.Le voci del deserto sono, a mio avviso, indispensabili (anche quelle risentite) per pensare di «ricostruire [o demolire] una piccola civiltà culturale, per contrastare la diffusa convinzione che tutto quello che si fa è ininfluente» (Christian Raimo). Lasciate dunque parlare quel piccolo, ma nutrito gruppo di alfabetizzati che si prendono la briga di leggere libri, giornali, riviste; di vedere film o vernissage; di ascoltare musica da camera o da stadio. Lasciate partecipare al dibattito queste voci isolate che non fanno male a nessuno se non a se stesse; se dicono sciocchezze o maldicenze nessuno si prendere pena di ascoltarle; se una voce avrà credito lo decideranno i lettori che, a loro volta, sono o potranno essere voci. In fondo, tra la moltitudine di alfabetizzati sono pochi coloro che decidono di usare la scrittura come partitura del loro essere. E se molti, tra questi pochi, diffondono nel mondo un'immagine grottesca o, addirittura, ai limiti del ridicolo, saranno facilmente seppelliti da una risata o da una semplice alzata di spalle. Ma è sempre meglio provarci a esprimere le proprie ubbie, le proprie facezie che vivere, allora sì davvero, rintanati nel risentimento, nell'inespresso. È lì, nel mutismo, che covano i demoni che poi formano l'orda manipolabile da scaltri tribuni senza il minimo pudore. Chi invece prende una penna o una tastiera e comincia a raccontarsi, a partecipare, ad entrare dentro il gioco (a volte balordo e a volte nobile) dello scambio di opinioni, non si troverà mai nelle condizioni di farsi dettare da altri cosa lui dovrebbe dire.

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