Una volta si ergevano torri per difendere il suolo patrio dalle incursioni dei saraceni e dei pirati. Adesso per vendergliele. Il fondo sovrano del Qatar è diventato il proprietario unico di Porta Nuova, l’area di Milano dove sono sorti numerosi nuovi grattacieli. Il fondo emiratino, diventato il vero padrone di Hines sgr, dopo essere subentrato agli investitori iniziali: Hines, Unipol Sai, ed i fondi Mhrec, Hicof, Coima e Galotti ha in animo un grande disegno di “riqualificazione” di tutta la zona attorno a Porta Garibaldi e dei 25 edifici che hanno un valore di mercato di oltre 2 miliardi.
D’altra parte se non ce l’ha chiesto l’Europa, di certo ce lo ha delicatamente suggerito, quando, in previsione della piena attuazione del Ttp, ha consigliato ai partner più straccioni e inadempienti di disfarsi dei gioielli di famiglia, di portarli al Monte di Pietà globale come si addice alle pecore nere, ai parenti indebitati.
E non ci vengano a dire che sono arrivati come i pirati, che ci stanno invadendo come i barbari. La verità è che li abbiamo invitati, siamo andati a cercarli, reggendo la valigetta da commessi viaggiatori. I nostri premier, i nostri ministri, i nostri sindaci da tempo sono andati col cappello in mano a elemosinare interventi di “valorizzazione”, con scriteriate campagne promozionali, proponendo occasioni da outlet destinate di preferenza a opulenti finanziatori poco occulti dei nemici della civiltà, intenzionati a diversificare gli investimenti e i rischi in previsione di uno sboom del petrolio, e alternativamente graditi o criminalizzati, ma sempre protetti dagli Usa.
C’è andato Monti, c’è andato Letta in Qatar e in Kuwait, inaugurando addirittura un sistema suicida di partecipazione, con un investimento di 500 milioni di euro “nostri” in un fondo strategico pensato per “attrarre gli investitori arabi”. C’è andato Marino per trovare sponsor per Roma, con un elenco di A.A.A. offresi patrimonio artistico per mecenati non troppo per la quale. Ho perso il segno: non ricordo se c’è andato anche Renzi, magari nelle more dell’affaire San Raffaele di Olbia, l’ospedale “concesso” benevolmente alla Qatar foundation, con tanto di varianti urbanistiche e misure eccezionali per accelerare procedure e portare a buon fine l’operazione.
In compenso però è possibile apprendere dalle news di Bloomberg che nei primi giorni di febbraio alcuni influenti investitori internazionali si sono incontrati con rappresentanti del governo Renzi in una conferenza a porte chiuse, indetta per attirare investimenti. L’Italia, si legge, si prepara a vendere beni dello Stato per ridurre i 2.260 miliardi dollari di debito pubblico. Nel parterre pare ci fossero Blackrock Inc, Wellington Management, Banque Pictet, Egerton Capital, Amber Capital e Edmond de Rothschild, e dirigenti di Finmeccanica SpA, Atlantia SpA e Telecom Italia oltre al vertice della Cassa Depositi e Prestiti e a rappresentanti del Tesoro. Le privatizzazioni sono un obiettivo chiave per il premier, ha detto Marc Ostwald dell’Investor Services International Ltd, insieme alla volontà di “allargare lo specchio d’acqua che separa l’Italia dalla Grecia”.
Non sappiamo se abbia partecipato Hines, impegnata da qualche mese a perfezionare il subentro nella gestione del fondo Real Venice, costituito nel 2009 dalla giunta Cacciari e dato in gestione a Est Capital, società presieduta da Gianfranco Mossetto, già assessore al turismo e alla cultura della stessa giunta. Il propagandato “strumento d’investimento innovativo”, non aveva raggiunto i traguardi promessi, che comprendevano un progetto di “valorizzazione” (è proprio un’ossessione) del Lido con l’acquisizione dell’Excelsior e del Des Bains, oltre che dell’Ospedale al Mare, venduto per finanziare la costruzione, mai avvenuta, di un nuovo palazzo del cinema, tanto che Est Capital ha pensato bene di “restituirlo” al Comune che con la prestigiosa etichetta ha inglobato anche le sue perdite, pari, si dice, a 41 milioni. “Venezia è una città straordinaria che può ritrovare nel Lido un motivo di orgoglio e di sviluppo economico, è Catella, Ad di Hines che ha presentato anche il progetto “milanese”, a parlare. “ L’impegno che abbiamo assunto dopo oltre un anno di lavoro ci rende consapevoli della complessità e delicatezza del patrimonio storico del fondo Real Venice e della responsabilità nei confronti degli investitori, del ceto bancario e anche della comunità lidense”.
Come non sospettare che certe scatole cinesi montate per la valorizzazione, certi fondi di investimento finalizzati a faraoniche operazioni di riqualificazioni, siano fatalmente destinate all’insuccesso compiacente, in modo che subentrino generosi soggetti terzi, affabili salvatori, magari munifici sponsor, non appagati dei loro arditi grattacieli nelle cui pareti di cristallo si specchiano arcaiche disuguaglianze e inique modernità sullo sfondo del deserto.
Il fatto è che non impariamo mai la lezione. L’Italia, negli anni novanta, ha portato avanti la più grande dismissione di beni pubblici dell’intera Europa. La vendita si è rivelata uno dei più formidabili fallimenti politici e finanziari del dopoguerra e le sue conseguenze si stanno pagando ancora oggi. Una operazione che, insieme agli accordi del 1992, tra governo, sindacati e industria sulla concertazione e alla legge Treu del 1997 sulla flessibilità, ha posto le premesse dello smantellamento progressivo del complesso di grandi imprese e l’avvio di una crisi profonda del sistema industriale e produttivo. Basterebbe inanellare i nomi: Ilva, Alitalia, Autostrade, Telecom, ma anche Riso Scotti, Fiorucci Salumi, Bertolli, Carapelli, Olio Sasso, o Palmalat, Invernizzi, Loro Piana, Bulgari, Fendi, Gucci, Pucci, Bottega Veneta, Brioni, l’apparentemente innocente Orzo Bimbo e anche quelli delle squadre di calcio.
Perfino la Galbani, che così nemmeno loro sono più padroni del Bel Paese.