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“I segreti della massoneria in Italia”: dal prologo del libro, morte presunta di un “fratello” e le questioni siciliane

Creato il 14 novembre 2013 da Antonellabeccaria

I segreti della massoneria in ItaliaDal prologo del libro che esce oggi, I segreti della massoneria in Italia (Newton Compton Editori).

Rosa aveva aspettato l’11 luglio 1989 prima di rivolgersi ai carabinieri. Poi si era decisa perché l’assenza del marito, ormai prolungata, non la faceva più vivere. Così si era presentata in caserma, aveva spiegato che Giacomo si era allontanato a bordo della sua Fiat Uno e a casa non c’era più tornato. Secondo lei, era un caso di lupara bianca: un delitto di mafia senza cadavere perché la pena capitale decretata da Cosa Nostra prevede che il corpo della vittima da punire venga distrutto. Mai più lo si dovrà ritrovare.

Ma che c’entravano Rosa e Giacomo con la mafia? Per capirlo occorreva entrare negli affari di famiglia e della Famiglia. Il cognome di lei era infatti di quelli pesanti, Bontate, e suo fratello, assassinato il 23 aprile 1981, si chiamava Stefano. In giro lo conoscevano anche come il principe di Villagrazia, benché non appartenesse ad alcuna dinastia nobiliare. In realtà fin da giovanissimo aveva frequentato le cosche ed era stato affiliato a quella del padre, chiamato “don Paolino Bontà” e boss del quartiere palermitano di Santa Maria di Gesù. A ventidue anni, nel 1960, Stefano ne era già diventato il capo e un decennio più tardi faceva parte di una strana delegazione che dalla Sicilia se n’era andata al Nord, a Milano, a incontrare un manipolo di presunti golpisti che in qualche caso indossavano anche grembiuli e cappucci e che, nella notte tra il 7 e l’8 dicembre successivo, avrebbero tentato un colpo di mano di tipo autoritario.
Quel rendez-vous lombardo era stato occasione anche per un’altra importante faccenda: la ricostituzione della “commissione” di Cosa Nostra a cui avrebbero contribuito pure Gaetano Badalamenti e Luciano Liggio, formando, insieme a Bontate, un organismo che prese il nome di “triumvirato”. Insomma tornavano i tempi – se possibile migliorati – che nel 1963 aveva spazzato via la prima guerra di mafia. E spazzati via erano stati anche i boss che a partire dalla fine degli anni Sessanta avevano cercato di introdursi per manipolare la seconda vita della commissione. Ma al volgere del decennio successivo non fu più possibile per gli uomini del triumvirato evitare di fare i conti con quei ragazzi violentissimi e rampanti dei corleonesi, coloro che nel 1981 avrebbero fatto fuori Stefano e il suo compare, Salvatore Inzerillo, dando vita così alla seconda guerra di mafia.

Prima del suo omicidio, però, il principe di Villagrazia aveva detto addio senza rimpianti al vetusto commercio illegale di sigarette per darsi a un’attività dal punto di vista economico molto più redditizia: la droga. La materia prima, la morfina, la comprava in Asia e in Turchia e, una volta raffinata, la spediva negli Stati Uniti, dove ad aspettarla c’entrano gli attendenti della famiglia Gambino. Tutto sembrò filare liscio almeno fino al 1975 quando si era messo di mezzo il più violento e rampante di quei ragazzi, Totò Riina. Non gli bastava essere entrato nella commissione prendendo il posto di Luciano Liggio: per arrivare al vertice della sua scalata fino al 1978 non aveva esitato a mettere a morte altri boss legati a Bontate. Poi tentò, con alterne fortune, macchinazioni varie all’interno dell’organo provinciale di Cosa Nostra fino a quando non gli rimase che una soluzione per togliere di mezzo definitivamente Stefano, ormai indebolito sia dal punto di vista militare che politico: farlo attendere da un commando armato di lupare e kalashnikov che lo sorprese in via Aloi, mentre era fermo a un semaforo poco distante da viale della Regione Siciliana.

Bontate, in vita, non era stato solo un mafioso potente: era stato anche molto vicino alla massoneria tanto da averne fatto parte, secondo testimonianze che sarebbero state rese molto tempo dopo, quando questi argomenti sarebbero entrati nelle aule di tribunale e ancor prima nei verbali resi dai collaboratori di giustizia. Con un pezzo da novanta dell’istituzione come Michele Sindona aveva avuto non poco a che fare sul finire dell’estate del 1979, quando il banchiere e massone aveva messo in scena il suo finto rapimento con velleità di separare per l’ennesima volta la Sicilia dal resto d’Italia. In quella vicenda furono coinvolti anche altri uomini d’onore sia italiani che americani; tra i primi, c’era un altro massone, il marito della sorella di Stefano Bontate, Rosa. Si chiamava Giacomo Vitale, era nato nel 1942 e nell’agosto 1979 era stato lui ad andare ad Atene a prendere in carico Sindona per accompagnarlo a Palermo, dove sarebbe rimasto nascosto fino a ottobre, quando si rimaterializzò a New York.

Se queste sono tutte storie che troveranno spazio nelle pagine a seguire, qui restiamo ancora su Giacomo, che ufficialmente lavorava all’Ente minerario siciliano, l’EMS. Era lo stesso istituto a cui si sarebbero legate, attraverso altri suoi funzionari, diverse vicende misteriose della storia d’Italia, a iniziare dalla sciagura aerea che non fu un semplice incidente (come dimostrò l’inchiesta della procura di Pavia seguita dal magistrato Vincenzo Calia) e in cui il 27 ottobre 1962 rimase ucciso Enrico Mattei, fondatore e primo presidente dell’ENI. Ai tempi, l’EMS era presieduto dal democristiano veneto Graziano Verzotto, inviato nel 1955 in Sicilia da Amintore Fanfani, e se l’esplosione del Saulnier 706 di fabbricazione francese fu una delle storiacce che lo lambirono, sempre all’Ente minerario siciliano si legò un’altra vicenda, quella della scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, sparito nel nulla il 16 settembre 19701. Infine ci fu un ulteriore fatto, legato di nuovo a Sindona e ai fondi neri dell’EMS.

Vitale, che venne arrestato nel 1985 dopo quattro anni di latitanza, fino al 1979 era stato considerato un ottimo acquisto per l’ente, il dipendente modello per antonomasia. Ma poi venne fuori la storia del finto sequestro e quella delle telefonate minatorie ricevute dall’avvocato Giorgio Ambrosoli, che dal 1974 al 1979, l’anno in cui fu ucciso, lavorò alla liquidazione dell’impero finanziario del banchiere siciliano. Legato alla cosca di Bontate, Vitale risultava affiliato a una loggia, la CAMEA (Centro attività massoniche esoteriche accettate), che sarebbe stato uno strano crocevia di interessi e personaggi. Ma poi, con l’omicidio del cognato Stefano nel 1981 e mentre i guai giudiziari diventavano sempre più incombenti, era arrivato il suo definitivo tramonto.

Quando scomparve, nell’estate 1989, si pensò che la sua sparizione potesse aver avuto a che fare con un altro mafioso, Totuccio Contorno, il collaboratore di giustizia che fornì elementi importanti per procedimenti come il maxiprocesso di Palermo e quello noto come “Pizza Connection”. Altro elemento della cosca perdente di Bontate – scampato il 23 marzo 1981 a un attentato che lo persuase a lasciare Palermo trasferendosi a Roma per tentare di riorganizzare i suoi sodali caduti come lui in disgrazia – Contorno nel marzo 1989 era tornato in Sicilia. Il suo rientro coincise con una nuova guerra mafiosa che, nel giro di poche settimane, fece registrare una ventina di morti. Inoltre pochi mesi prima, il 28 settembre 1988, c’era stato l’ennesimo omicidio tra i perdenti ed era quello di un altro cognato di Giacomo Vitale, l’avvocato Giovanni Bontate, assassinato insieme alla moglie Francesca mentre era agli arresti domiciliari. Tra i fatti che non gli erano stati perdonati e che potrebbero aver contribuito all’esecuzione, c’era anche un suo gesto compiuto nel corso di un’udienza del maxiprocesso: aveva letto in aula un comunicato in cui smentiva il collegamento tra Cosa Nostra e l’omicidio di un bambino di undici anni, Claudio Domino. La sua colpa, in quell’occasione, fu soprattutto di aver pronunciato la parola «noi», intendendo «noi mafiosi», come avrebbe sottolineato l’allora giudice a latere Pietro Grasso.

Insomma, per Giacomo Vitale l’aria doveva essersi fatta irrespirabile e gli inquirenti che raccolsero la denuncia della signora Rosa non esclusero l’allontanamento volontario. Tanto più che l’auto su cui Vitale se n’era andato non venne ritrovata, fatto ritenuto insolito in un presunto caso di lupara bianca. Così, tra qualche persona, si diffuse la convinzione che l’uomo sarebbe ricomparso, prima o poi. Ma ciò non avvenne mai. Fu per questo che il 26 febbraio 1994 il tribunale di Palermo diede corso alla richiesta di morte presunta, richiesta presentata dalla famiglia del cameino ancora convinta che Giacomo, quarantasettenne quando sparì, fosse stato vittima di una ritorsione della mafia. Infine il 20 marzo 2002 Vitale venne dichiarato ufficialmente morto e le ragioni, nascoste probabilmente in quell’intreccio di poteri convergenti che lo aveva visto protagonista ai tempi di Sindona, scomparvero insieme a lui.


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