Che cosa sognano le donne native americane?
Esse sognano disegni, progetti, canti e danze e si associano in società femminili: Maggie sognò le possibilità di un ricamo di perline che rappresentava il brillante fogliame autunnale e le eseguì (Landes 1938).Alfred Kroeber dedica gran parte della sua monografia sugli Arapaho alla spiegazione del simbolismo dei disegni ricamati o dipinti dalle donne sugli oggetti cerimoniali e su quelli di uso quotidiano e ci offre così una straordinaria opportunità di sapere che anche il più piccolo decoro, la forma stessa degli oggetti quotidiani corrispondeva a una concezione totale, in cui potere soprannaturale evocato, perfezione formale, piacevolezza estetica e funzionalità concorrevano all’armonia assoluta dell’oggetto. A proposito dei mocassini, per esempio, un disegno a scacchiera rappresenta la rozza superficie dell’intestino del bisonte. Nel mocassino completamente ricamato della figura 5 f di The Arapaho sull’area bianca del bordo vi sono delle pipe disegnate con un motivo sinuoso. Le grandi aree triangolari rossa e verde insieme raffigurano le corna del bisonte, mentre il rosso denota il terreno spoglio (che ha il colore della terra da campo di tennis in gran parte degli Stati Uniti) e il verde del terreno ricoperto d’erba, su cui di solito il cacciatore che indosserà questi mocassini troverà i bisonti. Sul calcagno un disegno rappresenta una traccia, mentre una specie di linguella biforcuta ricade sul collo del piede. E’ ricamata con perline celesti e macchie blu e alle estremità delle biforcazioni sono attaccati dei cilindretti di latta che tintinnano. Quella linguella è il serpente a sonagli, la cui pelle è riprodotta dalle perline celesti e blu, la sua forma mostra la lingua biforcuta e i campanelli di latta diventano il sonaglio della coda. Così in una semplice calzatura abbiamo una preghiera che il cacciatore destinatario del dono trovi i bisonti e torni a casa sicuro e al riparo dal morso del serpente.
Gli Arapaho non avevano il ritiro obbligatorio per le donne mestruate; le donne sedevano tranquille nella tenda, tenendosi in disparte dalle persone giovani, ma cuocevano da mangiare per tutti. Si legavano l’abito stretto intorno alla vita e si cambiavano e si lavavano ogni giorno. Non vi era alcuna cerimonia particolare per la prima mestruazione, ma una donna non poteva entrare nella tenda dove si teneva la cerimonia del peyote e se un uomo aveva fatto all’amore con una donna mestruata veniva (dicono) scoperto dall’odore. Poiché questa cerimonia appartiene a una delle religioni principali degli Arapaho, oltre al cattolicesimo, essa è ancora sottoposta alle stesse limitazioni. Una donna mestruata, una puerpera e una persona malata non potevano entrare in una tenda dove giacesse un infermo, perché l’avrebbero fatto peggiorare. Le donne di medicina, dopo aver partorito, praticavano la tenda del sudore per ripulirsi. Le mestruazioni erano chiamate bäätä’äna (medicina, soprannaturale, misterioso) o näniiçe’hina (näniiçext bäätäät, ella ha le mestruazioni) (Kroeber 1983).
Louise Spindler in uno studio sull’uso del peyote da parte dei Menomini del Wisconsin osserva che molte donne marginali al culto usano il peyote in modo molto secolare e razionale, cioè come medicina per il mal d’orecchi, per aiutare il parto e così via, senza un particolare riferimento o comprensione del suo significato religioso di chiesa, riportandolo all’uso erboristico della millenaria tradizione femminile. Altre poi usano il peyote per avere visioni e ottenere in questo modo disegni per il ricamo di perline e altri ricami, secondo il più antico schema di acquisizione dei disegni attraverso il canto visionario: una vecchia dichiarò di usare il peyote quando era stanca di fare i vecchi disegni e ne voleva dei nuovi (La Barre 1969).
Le donne però non sognavano e sognano solo disegni e ricami con il porcospino, il pelo d’alce o le perline o il filo colorato; esse “vedono” anche vasi, ciotole, olle, piatti, nuovi impasti ceramici, nuovi segreti di cottura, nuovi disegni, anche se, naturalmente, all’interno della tradizione. Tuttavia, dal punto di vista della psicologia della creazione artistica, è una cosa completamente diversa sognare un disegno e copiarne uno. L’importanza dei disegni sognati in altre aree, nel ricamo a perline delle Pianure o nei canestri del Plateau, è stato sottolineata spesso.… Dopo i sogni, e più importante di essi, come fonte di ispirazione dei disegni è l’antica ceramica (Bunzel 1929).
L’antropologa Ruth Bunzel aveva imparato l’arte antica della ceramica dalle stesse donne Pueblo, che ne avevano condiviso con lei i segreti soltanto perché era una donna. All’epoca della Bunzel l’arte ceramica Pueblo era forse al suo livello artistico più basso, dopo la decadenza indotta dal dominio spagnolo e americano. Tuttavia gli scavi archeologici e l’apertura di un mercato d’arte nel Sudovest aveva ridato respiro all’antichissima arte, che in Nordamerica è sempre stata femminile, proprio tramite il contributo degli antichi sogni delle donne, che lasciavano in eredità alle bisnipoti i cocci e le stoviglie di una delle massime espressioni dell’arte indiana: la ceramica Pueblo.
Le donne fabbricano ceramiche sacre, da usare nelle cerimonie e, come le Zuni, pregano con la terracotta disegnata, perché non possono fabbricare “bastoni di preghiera” come i sacerdoti maschi. Così, tramite disegni d’acqua, nuvole, scale, pioggia, neve, vento, fulmine, rane, girini, cervi, fiori e uccelli esse invocano i signori del tempo atmosferico e della caccia. I disegni sono personali, “pensati” e “sognati” e nessuna copia da un’altra, neppure la madre, senza il suo permesso. Di regola la ceramica è dipinta secondo un piano attentamente considerato, elaborato nella mente della ceramista in tutti i suoi dettagli, anche molto intricati, misurando il pezzo tramite la distanza tra il pollice e la punta del medio. L’esitazione è rara: di solito l’artista studia a lungo la forma non decorata e una volta cominciato, continua senza interruzioni fino alla fine.
Esse parlano di notti insonni spese a pensare al disegno del vaso da decorare al mattino, di sogni di nuovi disegni che tentano di ricatturare durante la veglia e che spesso non riescono a riprendere e, soprattutto, la preoccupazione costante di problemi decorativi mentre sono occupate in altri lavori.
“Io penso sempre ai disegni, anche quando sto facendo altre cose e ogni volta che chiudo gli occhi, vedo disegni di fronte a me. Spesso sogno disegni e ogni volta che sono pronta a dipingere, chiudo gli occhi e allora i disegni mi vengono alla mente. Io dipingo come li vedo.”(donna Hopi)
“…Alcuni pensano che la ceramica non valga molto, ma per me ha un grande significato. E’ qualcosa di sacro. Tento di dipingere tutti i miei pensieri sulla ceramica”.(donna Laguna)
“Mi piace soprattutto fare disegni nuovi e non copio mai disegni di altre donne. Qualche volta vedo un disegno su una giara e se voglio farlo chiedo alla donna di darmelo. Non sarebbe giusto usare il disegno di un’altra donna senza chiederglielo”.(donna Zuni) (Bunzel 1929)
E’ evidente da queste testimonianze che le donne Pueblo dedicano gran parte dei loro pensieri consci e inconsci all’arte della ceramica, che ha un fortissimo valore di creazione individuale; dire “Dipingiamo i nostri pensieri” è il modo comune di esprimersi nei villaggi dove i disegni hanno significato simbolico.
Tra gli Zuni certe bottiglie di ceramica per l’acqua sono fatte a imitazione della mammella femminile, perché le donne Zuni definiscono l’acqua il latte dell’adulto. L’antropologo Cushing sosteneva l’opinione che l’apertura di questa bottiglia chiamata me-he-ton, piatta posteriormente e a forma di mammella davanti si trovasse in origine sul capezzolo ma, dato che un’apertura così bassa lasciava filtrare l’acqua, fu chiusa e aperta più in alto. Quando una donna Zuni ha terminato quasi completamente la bottiglia con il procedimento a colombino, prima di inserire la bocchetta a forma di capezzolo ella prepara un pezzetto di argilla e, mentre chiude l’apice con quello, gira lo sguardo, perché ha paura di guardare il vaso . Ella crede che se guardasse a questo punto dell’opera potrebbe diventare sterile oppure cieca o che i suoi figli possano morire da piccoli o che se qualcuno bevesse da quella bottiglia potrebbe ammalarsi e intristire. Infatti la chiusura dell’apice della mammella artificiale è analoga alla chiusura della fonte di vita e quindi la donna teme di chiudere la via della vita delle sue mammelle, il che procurerebbe guai a lei stessa e ai suoi bambini (Cushing 1979).
Riferimenti
Bunzel Ruth L. The Pueblo Potter, New York. 1929.
Cushing Frank Hamilton, Zuni, Lincoln 1979.
Kroeber Alfred, The Arapaho, Lincoln. 1983.
La Barre Weston, The Peyote Cult, New York, 1969.
Landes Ruth, The Ojibwa Woman, New York, 1938.