Di rivoluzione se ne parla e quando se ne parla vuol dire che non si fa. Siamo i soliti italiani non rivoluzionari. E questo dovrebbe agevolmente farci rassegnarci al fatto che siano sempre i soliti italiani a ricoprire tutte le cariche pubbliche, a fare politica locale e nazionale, ad avere le mani in pasta.
Tutti hanno ricette e nessuno cucina. O, se cucina, lo fa per amici e parenti che in Italia sono sempre tanti quando sei chef. Praticamente siamo più o meno nelle sabbie mobili. Dal cilindro escono sempre quei nomi o i lori familiari o affini. E la questione non è quella del ricambio generazionale, senza i figli o i nipoti potremmo vivere alla grande se i padri, gli zii e i nonni fossero buoni e capaci.
Ma di cosa possiamo lamentarci? Ci facciamo la guerra tra noi, abitanti di gamba tacco punta, ricchi e poveri, pensionati e disoccupati, studenti e lavoratori, autonomi e dipendenti e sbuffiamo ogni giorno mentre cerchiamo, comunque, di stare dentro il sistema e la cultura che fingiamo di disprezzare. C’è chi chiede aiuto al tizio che è introdotto nelle utili cose che risolvono i bisogni, chi fa il furbo e salta la coda, chi si arrangia con un pizzico di fantasia, chi si prende con arroganza quello che gli occorre. E così via, fino a sera. Domani è un altro giorno e si vedrà.
Abbiamo l’arte e le bellezze, abbiamo (o avevamo) eccellenze in tutto ma custodirle, rispettarle, valorizzarle costava umiltà, fatica, lungimiranza. Ora lo ripetiamo tutti come un mantra ma intanto guai a lavorare la terra o fare l’artigiano. Anzi, tanto che ci siamo andiamo avanti a imbrattare i monumenti, a ignorare la realtà e il patrimonio che dovremmo portare in palmo di mano.
La crisi economica ha stracciato il nostro portafogli, l’entusiasmo e le prospettive seguono a ruota perché in fondo non lo ammettiamo ma siamo consapevoli della nostra attitudine al lassismo. A noi piace poco ripartire, metterci in gioco, svoltare, rimboccarsi le maniche. Siamo più propensi a dare la colpa ai soliti fingendo di non sapere che siamo noi, i soliti.
La pessima prova dei soliti in politica, quelli che ci rappresentano proprio per quello che siamo, ci indigna nel tempo e nello spazio in cui non possiamo godere noi di qualche privilegio, di un posto al sole e delle frequentazioni “giuste”.
E quelli che se ne vanno all’estero e trovano una società che funziona e ripaga finiscono per non venirci neanche a spiegare che ricevono esattamente quello che danno. Forse fanno bene, tanto non li ascolteremmo e non la prenderemmo come una lezione.
29 gennaio 2014 - Autore: Irene Spagnuolo