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True Detective Stagione I Oggi. Due detective di nuova generazione si danno il cambio e, in sale separate, interrogano due colleghi, due partner, due vecchi eroi che hanno abbandonato pistola e distintivo, dopo aver perso troppo. Sono appesantiti, sbattuti, invecchiati. Puzzano di sigarette e liquore. Difficile crederlo, ma - vent'anni prima - hanno intercettato un serial killer che, con i suoi sanguinosi rituali a sfondo religioso, aveva fatto stragi tra donne e bambini. Marchiava le vittime, disponeva i loro cadaveri con metodo, lasciava sulla scena del crimine una scultura di legno. L'uragano Katrina, a lungo, ha seppellito prove vitali, ma si è giunti finalmente a una conclusione: quel serial killer non è mai stato fermato. Non agiva da solo. Possibile trovare giustizia dopo tutti quegli anni? 1995. Quando quei detective erano già dannati, stanchi, ma ancora giovani. Quando quei detective, estranei, si parlavano. Marty è padre di famiglia: poco sagace, diretto, impulsivo, ama le sue bimbe e le donne. Pensa con l'uccello e il suo matrimonio perfetto, a causa dell'odore del sesso, è a un passo dal tracollo. Come collega, gli hanno assegnato Rusty, che ha un nome che ricorda la ruggine. Rusty è intelligente, scrupoloso, e vede cose che gli altri non vedono. Fuma migliaia di sigarette e ha migliaia di segreti. Conosce i migliori (o i peggiori) spacciatori, ha gli occhi infossati, cicatrici profonde che non si limitano alla pelle. Si confrontano, si appoggiano, si insultano. Si stimavano: l'hanno fatto fino al 2002. Cosa è successo in quei dodici anni di distanza? Era appena iniziato il 2014 quando, al debutto di un serial, al cominciamento di un ciclo nuovo, già si parlava di serie dell'anno. True Detective. Non si attendevano smentite, non venivano sollevati dubbi. Inutile aspettare i restanti dieci, undici mesi. Sulla HBO, ancora una volta, in onda qualcosa di molto vicino alla perfezione. Ho guardato il pilot e lì mi sono fermato: eccellente, ma lentissimo. Pure noioso. Troppo, per me, che mi lamento della pochezza delle sit-com, ma le divoro; troppo, per me, che trovo che un'ora sia troppa e che i canonici quaranta minuti siano la giusta misura. Ammetto di non essere abituato a un formato simile, rimpiango la mia impazienza. Vedete, io andavo educato alle cose belle, se così si può dire. E la bellezza richiede un lungo apprendistato. Aspettate, imparate a non guardare l'orologio ogni cinque secondi, non perdete il filo, per via dei tanti nomi e dei lunghi silenzi in cui parlano i volti e la musica, in coro. True Detective è bello e non devo venirvelo a dire io. Un poliziesco inconsueto, calmo, senza particolari colpi di scena, ma caratterizzato da una scrittura esemplare e da un gusto eccezionale. Lo pensavo pulp, sanguinoso, invece è di una quiescenza che ammazza. Raffinatissimo. Denso. Non immaginate chi sia il colpevole, non cercate di indovinarlo. Non lo conoscete. Non è un giallo alla Agatha Christie. E' un romanzo a tinte forti, in cui si parla di come nessuno sia del tutto libero dal male. Non ci sono brave persone, ma persone che fanno cose giuste e cose sbagliate. Il confine è sottile, almeno quanto la personalità dei suoi straordinari personaggi: inafferrabili. Due sbirri veri, due “cattivi tenenti”, che sguazzano in uno stagno senza fondo di malvagità, pedofilia, rapimento, mistero, e non ne escono del tutto puliti. Ci vorranno due decenni per mettere un punto alla loro storia e, nel frattempo, la corruzione metterà radici. Woody Harrelson, dopo una candidatura all'Oscar lontanissima e una serie di ruoli da comprimario, è all'altezza delle aspettative. Lavori di trucco curatissimi ce lo mostrano in tre fasi della vita: biondo, stempiato, calvo. Magro e grasso. Giovane e vecchio. Ottuso, infedele: sempre umano. La sua compagna di vita, almeno per un po', la delicata Michelle Monaghan: mamma di due bambine che, in un solo episodio, il quinto, diventeranno adolescenti ribelli e disinibite d'un tratto. L'incubo di ogni papà, il sogno di ogni compagno di liceo dalle mani lunghe. Il suo compagno d'armi, invece, è Matthew McConaughey che, quest'anno, si è scoperto un attore di quelli grossi. Piccola curiosità: i due hanno già recitato insieme, anni fa, in Edtv. Qui, lui, è più bravo di sempre. Ancora più bravo che in Dallas Buyers Club. Una prova sofferta, l'ennesima, che gli ha scavato il volto, gli ha incurvato la schiena, gli ha fatto arrochire la voce e crescere la barba. Tormentato da visioni, sesti sensi, ricordi, è un personaggio di lynchiana memoria: incomprensibilmente bello. Incomprensibile anche la sua mancata vittoria agli Emmy: la sua prova, così come la qualità della serie tutta, è roba da non credere. Cosa mai vista prima. I paesaggi, paludosi e ostili, quelli contro cui aveva già lottato in Mud, The Paperboy, Killer Joe. Alla regia, per tutti gli episodi, colui che, nel 2011, portò al cinema un favoloso Jane Eyre: Cary Fukunaga. Questa volta, dirige un gran film che dura qualcosa come otto ore, impresa da record, con una mano e uno sguardo che ricordano Cronenberg, Fincher, Nichols. E ci regala sequenze spiazzanti, lunghe, indimenticabili, che in televisione – e perché, altrove? - non sono mai state portate. Un ininterrotto piano sequenza che dura sei minuti, meritevole di occupare un posto tutto suo nella storia del cinema. Il mezzo spogliarello mozzafiato della travolgente Alexandra Daddario che, nudissima, entra a pieno diritto nell'immaginario dell'erotismo. La scena finale che, da manuale, intenerisce ed emoziona come non pensavo. Una gemma che ha inizio nel sangue e finisce con le stelle, True Detective. Con la speranza di un aldilà, con la speranza di una riappacifazione. Con la speranza. Petrolio, catrame; poi una lama seghettata di luce. (9)
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