[ATTENZIONE, TRATTASI DI UN ESAME DIAGNOSTICO. SE NON RIUSCITE A LEGGERE FINO IN FONDO NON PREOCCUPATEVI, VUOL DIRE CHE SIETE SANI]
(Éunpresidiomedicochirurgico,leggereattentamenteilfogliettoillustrativo, nonsomministrareaibambinisottoi12anni. Puóavereeffetticollateralianchegravi)
“Se entro cinque carte esce l’asso di denari mi licenzio”!
Quattro di spade. Sei di coppe. Fante di bastoni. Tre di coppe. Asso di bastoni.
Mescolò nervosamente il mazzo di piacentine per l’ennesima volta.
Fuori dal bar pioveva. L’estate era stata rubata. A quel diluvio bastarono quindici minuti.
Il sole che si fece largo dietro il viola carico del temporale non sarebbe più stato lo stesso per almeno altri otto mesi.
“ Se entro cinque carte esce il re di denari…”
Fante di spade. Due di bastoni. Quattro di coppe. Cavallo di spade. Re di denari.
“…cazzo!”
Si era dimenticato di completare il periodo ipotetico con la sua proposizione reggente.
Pensò a quando era bambino e suo padre si era dimenticato di giocare la schedina. La domenica sera scoprì di aver fatto dodici. Furono Casertana – Catanzaro a rendere più dolce la beffa. Svanirono pochi soldi di un montepremi davvero popolare. Seicentotrentottomilalire.
La barista si avvicinò per portare via la tazzina vuota. Con un veloce colpo di spugna scrollò via le briciole dal tavolo e lo stampo di caffè lasciato dalla tazzina. Lui pensò che quella donna avesse un buon profumo. Rimescolò ancora le carte. “ Se entro cinque carte esce il quattro di denari me la scopo”!
Fante di spade. Asso di coppe. Cavallo di bastoni. Quattro di denari…
- Scusa!
- Sì, mi dica.
- Non è mica che…potresti portarmi un altro caffè?
- Certo, subito!
- Grazie.
Il cuore ora aveva un altro ritmo. Non è che avesse strane aspettative, ma le carte avevano sentenziato. Non gli rimaneva che attendere. Il caffe arrivò più in fretta di quanto lui avesse immaginato. Pertanto non aveva preparato neanche una frase, un’espressione, uno sguardo. In quel momento non si percepì come un’immagine. Tuttalpiù come un odore. Un odore di cinque o sei docce rimandate.
- Ecco a lei.
- Oh eccolo!…ma non…è che…
- Le occorre altro?
- No no no…apposto così, grazie!
- Prego.
Il temporale cessò con la stessa repentinità con cui era iniziato. L’aria del bar d’un tratto divenne umida e pesante. L’odore del caffè torrefatto ora sembrava sottrarre ossigeno. La barista andò ad aprire la porta a vetri dell’ingresso per far passare l’aria fresca della pioggia appena caduta. La lasciò spalancata, grazie al portaombrelli dorato che usò come fermaporta. La osservò nei suoi movimenti lineari e leggiadri, mentre si sforzava a trattenere tutta la fiducia del mondo riposta dentro quel quattro di denari. Mise la mano dentro il taschino della camicia per sincerarsi che quel mazzo Modiano si trovasse ancora lì. Accanto al porta pasticche. Mancavano ancora quattro ore all’appuntamento col Prozac® ma quando vide la cameriera fuori dal bar fumare nei suoi cinque minuti di pausa, non resistette. Ingoiò quella compressa dispersibile a secco, senza una goccia d’acqua, con quel movimento del collo a scatto tipico del tacchino quando ingurgita becchime. Era il momento di fare i conti con quel quattro di denari.
Lei stava lì, in piedi, col gomito appoggiato allo specchietto laterale di una macchina parcheggiata e la mano chiusa a pugno sulla tempia destra a sorreggere la testa. Lui fermo, dritto dinanzi a lei. La fissava con educata impertinenza. Lei trovò i suoi occhi e sorrise scaltra.
- Ecco il cartomante gentile!
- No, no…sono solo un impiegato comunale in ferie.
- Noooo! Hai perso venti punti di interesse!
- Come li recupero?
- Facendomi le carte!
- Ma non sono tarocchi, sono semplici carte da gioco!
- Ma tu hai messo in ferie anche la fantasia?
Lui mise le mani in tasca e si strinse nelle spalle. Lei era anche simpatica oltre che bella.
- Mi dispiace ma è colpa delle sedute psicoterapiche sistemico-relazionali. Mi distolgono dall’irreale.
- Capisco. E come sopravvivi?
- Col Prozac®. Quaranta milligrammi al giorno.
- Ah! Io con quindici gocce di EN® a colazione, pranzo e cena non sono nessuno!
- Diciamo semplicemente che siamo colleghi di dipendenze moderne, non trovi?
Lei sorrise ancora. Questa volta le nacque da dentro e si affacciò negli occhi, scavò fossette sulle guance, gli dischiuse le labbra e gli arricciò il naso. Nessuna forma nevrotica tentò di imbrigliare quel sorriso che la rese ancora più bella. Quasi irresistibile.
- Sono un’esperta di ossessioni compulsive e francamente quella delle carte è una compulsione assai originale. Mia madre controllava in continuazione che i pomelli della stufa a gas fossero chiusi. A casa mia non siamo molto originali, io per esempio lo zucchero…
- Controllava?
Lui si accorse di aver messo un piede oltre la linea gialla disegnata sulla soglia dell’intimità della ragazza. Il quattro di denari non gli aveva permesso di vedere il cartello: “attenti allo scalino”. Era inciampato goffamente. Altri venti punti persi dentro al velo di tristezza che in un baleno avvolse la ragazza che ora pensava a sua madre.
- Scusami è che certe volte non…
- Io per esempio lo zucchero…
- Cosa?
- Io non sopporto lo zucchero.
- Il sapore?
- No. Non è il sapore. Si vede che non hai mai lavorato in un bar!
- Sì ma lo zucchero che c’entra?
- E’ dappertutto. Sul bancone, sui tavoli, per terra. Ti si attacca alle mani bagnate, scricchiola sotto alle scarpe, appiccica qualsiasi cosa. Lo odio.
- La trovo un’ossessione strana per una barista!
- Che c’entra! Le compulsioni hanno delle traiettorie imprevedibili. E’ impossibile cercare un disegno
tangibile nelle loro trasversalità. Altrimenti con le tue carte ora dovresti essere in un casinò. E comunque, anche se avessi ragione tu, da domani non sarò più una barista.
- Come?
- Mi sono licenziata.
- Anche io ci sto pensando da tempo.
- Mmh?
- A licenziarmi intendo
- Ah! E cosa ti impedisce di licenziarti?
- Le carte.
- Cosa ti dicono le carte?
- Niente. Appunto.
Questa volta fu il sorriso di lui a scomparire. Il viale della stazione ora pullulava di gente. Gli ombrelli erano spariti. Sentiva il tempo scivolare lungo il marciapiedi e ritirarsi come una pozzanghera al sole. Distolse lo sguardo dagli occhi di lei. Lei se ne accorse e cercò di risollevare quel piccolo ponte fatto di parole e sensazioni che vicendevolmente, a causa delle loro debolezze, facevano crollare di continuo.
- Qualcosa ti diranno, altrimenti saresti troppo stupido a consultarle ogni cinque minuti.
- Beh in effetti, ogni tanto qualcosa dicono. Per esempio, poco fa, il quattro di denari…
- Il quattro di denari cosa?
- No, niente. Non posso dirtelo.
- Eh no! Così è scorretto!
- Tu piuttosto, cosa farai ora che ti sei licenziata?
- Non lo so, caro il mio croupier curioso! Ho abbandonato l’idea di cercare di capire chi sono e cosa voglio. Posso assicurarti che per ora funziona!
- Come può funzionare un discorso del genere?
- Funziona. Eccome se funziona! Ho iniziato con il chiarire quello che non voglio. Lavorare in un bar con tutto questo zucchero intorno è una cosa che non voglio! Non ti sembra un buon inizio?
- Sì d’accordo, ma ora io come farò senza la mia barista preferita?
- Senti, io ora torno dentro e finisco il turno. Se vuoi ti concedo alle 15:00, quando stacco, di accompagnarmi in stazione a prendere il treno per tornare a casa. Sai, non guido. Colpa della benzodiazepina.
- Volentieri, ma…
- Aspetta un attimo però! Dovrai prima dirmi quello che ti ha detto il quattro di denari!
- Non credo ti piacerebbe, ma se proprio insisti dopo te lo dico…
Lei gettò la sigaretta e rientrò di corsa nel bar facendogli un largo sorriso e un cenno con la mano che voleva dire “a dopo”. Lui rimase fermo, immobile sul quel marciapiedi. I pensieri cominciarono ad affastellarglisi in testa con una velocità smodata formando incredibili guazzabugli illogici. Girò l’angolo, tirò fuori il mazzo di carte e le appoggiò sopra il tettino di una Ford Fiesta bianca.
“Se entro cinque carte esce il quattro di denari finisce tutta ‘sta merda, cambio vita!”.
Tre di bastoni. Fante di spade. Sette di coppe. Asso di coppe. Cinque di denari.
“Se entro cinque carte esce il quattro di denari comincio a vivere sul serio. Con lei”.
Sei di coppe. Re di bastoni. Due di spade. Cavallo di denari. Quattro di coppe.
Le mani incominciarono a tremargli vistosamente. Iniziò a cercare una via d’uscita temporanea che lo aiutasse a riempire le quasi quattro ore che lo separavano dalla speranza, dalla prospettiva nuova e inconsapevole di un probabile e positivo cambiamento. Ora non mischiava neanche più le carte. Come un baro inesperto, cercava quel quattro di denari che rimettesse in ordine tutto, che restituisse rigore a quel senso netto di smarrimento e annunciasse una scoperta speciale sempre più vicina.
Rimise il mazzo in tasca e si avviò verso casa. A soli due isolati da lì. Il cuore era un tumulto che pulsava in petto e sulle tempie. Mantenne una traiettoria stabile fin dentro l’ascensore. Aprì la porta di casa e crollò sul divano come spinto da una forza invisibile. Il panico.
Sudava copiosamente. Si sfilò via la camicia di dosso. Pensò a una doccia. Pensò allo zucchero. Pensò a una via d’uscita. Pensò al Prozac®. Altre due compresse dispersibili. Provò a trovare la quiete nel sovradosaggio.
[…]
…quando riaprì gli occhi, la stanza intorno aveva le sembianze di un paesaggio lunare. Durante il sonno, la saliva fuoriuscita dalla sua bocca spalancata aveva lasciato sul cuscino di simil alcantara una chiazza di dimensioni ragguardevoli. Provò a mettersi in piedi. Mosse dei passi lenti e instabili verso la finestra per aprire le serrande e far entrare luce naturale. Aveva la sensazione di indossare dei doposci . All’improvviso l’immagine del quattro di denari lo inchiodò al centro della stanza. Rimase immobile nelle sabbie mobili della rimembranza. Tornò a sedersi. A sprofondare sul divano. Piano, coi ritmi ancora del dormiveglia, un’amara consapevolezza prendeva forma. L’orologio al polso lo spaventò. Quello sulla parete del soggiorno sentenziò. 19:32.
Si rimise sdraiato. Con il viso sul cuscino. A contatto con l’umido della sua saliva.
Questo fanno i farmaci che inibiscono la ricaptazione della serotonina, pensò.
La vita era un martello e lui si era adagiato sull’incudine.
Un’incudine con le sembianze di un divano.
Questo fanno i farmaci che inibiscono la ricaptazione della serotonina.
Mascherano la tua autodistruzione da abitudine, pensò ancora.
L’abitudine all’emicrania, alla perdita di sensibilità e al formicolio improvviso degli arti inferiori; L’abitudine alla fine di ogni settembre, al cielo rosso dei suoi tramonti che giocano d’anticipo; l’abitudine all’assenza di una direzione, per diniego, per ignavia; l’abitudine all’insonnia destrutturante, alla narcolessia; l’abitudine alla malattia come equivoco, alla compulsione come connotato anagrafico, al vittimismo come complice; l’abitudine a perdere punti di interesse, oggetti e appuntamenti, che siano con la speranza o con la propria coscienza, indistintamente; l’abitudine allo scarto costante fra ciò che si trovava davanti agli occhi e ciò che aveva con troppa passione immaginato; l’abitudine che ogni pensiero d’amore, ogni slancio passionale, finisca soffocato dalla polvere della smemoratezza; l’abitudine all’ostinata convinzione che la salvezza torni a fare capolino dietro un quattro di denari, dentro un porta pasticche;
L’abitudine a scomparire.
Giorno per giorno.
Inghiottito da un divano.
Nel sonno…
[…]
…lei finì di fumare in silenzio e salì nello scompartimento. Posò la borsa sul sedile e rimase in piedi, col gomito appoggiato al finestrino aperto di quel regionale e la mano chiusa a pugno sulla tempia destra a sorreggere la testa. Guardò di fuori le sfumature del temporale lasciate sulla banchina e annusò l’odore forte di treno, fatto di ruggine, piscio, muschio e similpelle di poggiatesta riscaldati dal sole. Il treno fischiò e iniziò la sua lenta corsa. Tra sette chilometri sarebbe tornata a casa. Appoggiò la borsa tra le gambe e si mise a cercare un fazzoletto per asciugare le lacrime che ormai gli gocciolavano dalla punta del naso. Rovistò in maniera frenetica e tirò fuori una carta da gioco. Un quattro di denari che aveva raccolto da sotto il tavolo mentre spazzava in terra alla fine del turno. Quella carta gli aveva donato una piccola dose di consapevolezza. La rigirò tra le dita per un po’, poi la ripose. Tirò fuori un fazzoletto e soffiò il naso guardando avanti, verso i tigli. Scese dal treno e dette uno sguardo al foglio ingiallito del tabellone degli orari da stazione secondaria.
Pensò che prima o poi nella sua vita avrebbe imparato a far coincidere arrivi e partenze.
Pensò che a volte perdere la coincidenza non è una disgrazia.
A volte.
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