Molte perdite ci costringono al lutto. E Aleksandar Hemon ha sperimentato le più dolorose: la perdita della patria, quella della lingua, infine quella di Isabel, sua figlia. E dopo ogni perdita si inizia una vita altra, a volte completamente diversa dove la perdita diventa conquista, altre volte di faticosa sopravvivenza…
Il libro delle mie vite di Aleksandar Hemon mi è capitato fra le mani quasi per caso, o per propositi comunque diversi da quelli luttuosi. Eppure, come spesso accade da un paio di anni a questa parte, ho capito che il lutto e la sua elaborazione costituiscono la parte preminente di questa breve autobiografia. Quelle che hanno colpito l’autore sono spesso, ma non sempre, perdite gravi, ma diverse dalla morte.
Ph. Tom Stoddart
La prima perdita è la casa. Classe 1964, Hemon è nato e cresciuto a Sarajevo. E per uno della sua età essere nato a Sarajevo nel 1964 significa averla accompagnata nel triste percorso che, negli anni Novanta, la vide protagonista di crivellate, morti, e dell’assedio più lungo della nostra epoca. Hemon respira tutto il clima che conduce a quel momento, comprese le feste e l’ebbrezza dell’estate del ’91, dove un’intera popolazione preferisce ignorare le tensioni e darsi alla follia, quasi come se stesse vivendo gli ultimi giorni. Ma nel ’92 gli viene offerta la possibilità di intraprendere un viaggio negli Stati Uniti e lui accetta. Quel mese è cruciale.
La prima elaborazione è la nuova casa. Hemon vive da allora a Chicago. Una città che ha imparato ad amare e che è diventata una nuova patria. Gli ci è voluto un po’ di tempo, ovviamente, ma è riuscito ad appropriarsi di una nuova città e a mettervi radici, che forse è il modo migliore per elaborare il lutto per la perdita di un luogo.
Ph. Dubito Ergo Shoot
La seconda perdita è la lingua. Per integrarti in un nuovo luogo è fondamentale possederne la lingua. I più si accontentano della lingua parlata, perché cambiare lingua scritta è incomparabilmente più difficile. Hemon, scrittore, è rimasto due anni senza scrivere, senza articolare i propri pensieri su carta, e per uno scrittore credo sia terribilmente difficile ma…
La seconda elaborazione è una nuova lingua. Aleksandar e Vladimir. Per me è naturale accostare questi due nomi, non solo perché Hemon in Nabokov vede il proprio scrittore preferito, ma anche e soprattutto perché a entrambi è riuscita, magnificamente, l’impresa di scrivere in inglese, una lingua che hanno acquisito, a fatica, soltanto con la maturità. In più ad accomunarli c’è una sensibilità particolare e sottile, quella che, come Hemon dichiara lo induce a scrivere «libri tristi per chi ha il senso dell’umorismo» e «libri spiritosi per gente triste».
Ph. Nicolò Paternoster
La terza perdita è una figlia. L’ultimo capitolo, “L’acquario”, è dedicato a una perdita che non ha soluzione o rimpiazzo. Hemon a Chicago si sposa due volte (e anche il divorzio e il re-innamoramento potremmo leggerli nell’ottica della perdita e dell’elaborazione) e mette radici. Alla figlia più piccola, di nove mesi, viene casualmente diagnosticato un tumore molto raro che è all’origine di un calvario durato 108 giorni. E di pagine bellissime che alternano descrizioni molto precise infarcite di un linguaggio medico specialistico e riflessioni molto profonde sulla morte. Perché alla fine Isabel muore. Perché alla fine i genitori di Isabel si prendono la responsabilità di dire basta all’accanimento senza speranza dei medici.
Di queste pagine, riporto qualche frammento.
Dopo un’operazione… «Isabel era viva. L’esito immediato era l’unica cosa che contava; tutto quello che potevamo sperare era di arrivare alla tappa successiva, qualunque essa fosse. Il futuro era sigillato; non ci poteva essere alcuna vita oltre il fatto che Isabel era viva adesso».
Dalla parte dei vivi… «C’è un meccanismo psicologico, ormai ne sono convinto, che impedisce alla maggior parte di noi di immaginare il momento della nostra morte. Poiché se fosse possibile immaginare nitidamente l’istante del passaggio dalla coscienza alla non-esistenza, con la relativa paura e l’umiliazione dell’impotenza assoluta, sarebbe molto difficile vivere, essendo insopportabilmente ovvio che la morte è inscritta in tutto ciò che costituisce la vita, e che ogni istante della nostra esistenza è a un soffio dall’essere ultimo. Saremmo ininterrottamente devastati dall’immanenza di quel momento inevitabile, perciò la nostra saggia mente rifiuta di contemplarlo. E tuttavia, mentre maturiamo verso la mortalità, immergiamo guardinghi nel vuoto le dita dei piedi frementi di orrore, sperando che in qualche modo la mente si adeguerà a morire, che Dio o qualche altro oppiaceo lenitivo resterà contattabile mentre ci avventuriamo più a fondo nell’oscurità del non-essere».
Non ci sono parole… «Una delle più comuni banalità che ci capitava di sentire era che “mancavano le parole”. Ma le parole a me e Teri non mancavano. Non era vero che non c’era modo di descrivere la nostra esperienza. Io e Teri avevamo un vasto linguaggio per parlare tra noi dell’orrore di quello che stava accadendo, e ne parlavamo. Né mancavano le parole del dottor Fangusaro e del dottor Lulla, sempre dolorosamente pertinenti. Se c’era un problema di comunicazione era che di parole ce n’erano troppe; ed erano di gran lunga troppo gravi e troppo specifiche per essere inflitte agli altri».
La morte e i bambini… «Non so quale facoltà mentale ci voglia per comprendere la morte; e non so a che età la si acquisisca, se c’è un’età; ma Ella (l’altra figlia di Hemon, ndr) sembrava possederla. Quando le abbiamo detto che la sua sorellina era morta, sulla sua faccia è passato un istante di chiara comprensione. Ha cominciato a piangere in un modo che si può solo descrivere come l’opposto di infantile e ha detto: – Voglio un’altra sorellina che si chiama Isabel –. Una dichiarazione che stiamo ancora analizzando».
Morale della “favola”… «La sofferenza e la morte di Isabel non hanno fatto niente per lei né per noi né per il mondo. L’unico esito importante della sua sofferenza è la sua morte. Non abbiamo imparato alcuna lezione che valesse la pena imparare; non abbiamo acquisito alcuna esperienza che possa giovare a chicchesia. E Isabel non è certamente ascesa a un posto migliore, perché mai ci fu posto migliore per lei del seno di Teri, del fianco di Ella o del mio petto».
di Silvia Ceriani
Aleksandar HemonIl libro delle mie vite
Einaudi 2013
176 pagine, 17 euro