Magazine Ciclismo

I treni persi e quelli ritrovati.

Creato il 13 luglio 2013 da Emialzosuipedali @MiriamTerruzzi

Treni. Quanti ne prendiamo nella nostra vita. Alcuni presi al volo, col fiatone; altri aspettati a lungo, seduti su una panchina piena di scritte della stazione, mentre fissiamo le rotaie roventi che vanno lontano, sembrano incontrarsi eppure non  lo fanno mai.
Treni. Quanti ce ne sono nel viaggio di una tappa? Alcuni sono diretti, vanno veloci, senza sosta. Altri assomigliano più a tremolanti regionali che si fermano ad ogni stazione e, anche se portano lontano, avranno sempre addosso l’odore di casa.

Il loro treno, Matteo Trentin e Julien Simon, l’hanno inseguito fin dai primi chilometri di questa quattordicesima tappa della Grande Boucle. Fanno così, i ciclisti, ipotecano la vittoria sulle loro gambe. A volte perdono, a volte vincono. Ma hanno sempre l’orgoglio, comunque vada, di poter dire che hanno scommesso tutto, su tutto quello che avevano.
Sono in diciotto in fuga: compagni di avventura che non sono amici, né compagni. Assomigliano a naviganti che sono costretti a fare il viaggio tutti assieme perché vanno nella stessa direzione. Una direzione che è esclusiva, solo per il primo arrivato. Simon e Trentin sono tra loro, tengono al caldo i loro piccoli sogni perché la strada, l’asfalto, permette a tutti di costruire castelli immaginari. In viaggio, sono tutti vincitori. Tutti aspettano il loro treno, quello giusto, l’occasione che non bisogna lasciare scappare.

Julien Simon prova a inseguire il suo sulla Cote de la Croix – Rousse. E’ un treno che non lascia scampo, un treno per quelli duri, che non hanno paura quando i secondi sono troppo pochi. Dieci, poi undici, dodici. Una manciata di tempo, briciole di attimi che diventano tesoro prezioso. Dietro Julien gli inseguitori stanno alla ruota fedele e costante di Tejay Van Garderen ma non vanno d’accordo. Lasciano che il francese rosicchi i secondi, uno dopo l’altro. Nove, otto, sette chilometri. E sempre lo stesso misero eppure incredibile vantaggio. Da una parte all’altra della strada non si placa il fiume umano di braccia e di urla. Niente esiste più se non il coraggio, la fatica e forse la paura di perdere quel treno, che si dipingono sul volto stremato di Julien. Manca un chilometro e mezzo quando il gruppo lo prende di nuovo nel suo seno caldo e avvilente.
Perduto. Julien è un passeggero fermo sulla banchina che fissa un convoglio che si allontana su due binari che non si incontrano mai.

Matteo Trentin, invece, il treno se lo vede passare davanti, prima della volata, a cinquecento metri dall’arrivo. Ci salta sopra, come quei vagabondi del vecchio West che si facevano l’America da costa a costa. Non lo sa che, quel treno, è proprio il suo.
Spunta all’improvviso, tra i ragazzi con cui aveva condiviso pane e strada. La sua ruota è la prima, la destinazione è sua. Alza le braccia e poi le appoggia sulla testa, come a dire: “E’ vero? L’ho fatto davvero?”.

Quando gli chiedono le dichiarazioni e gli dicono che l’Italia lo sta guardando, che tutti aspettano una sua parola, lui scherza: “Lasciate che vada a cambiarmi. Sono brutto.” No, Matteo. Ti sbagli. Il fango, la pioggia, il sudore hanno tutto un altro significato nel ciclismo. Sono segni che assomigliano a trofei di carne e di vita. E i trofei brillano sempre, sono sempre belli.
Mi è passato davanti un treno” dice sorridente, con l’accento che sa meravigliosamente di casa nostra, “e io l’ho seguito.”

Treni. Nel ciclismo, come nella vita, possiamo perdere giorni e anni ad aspettare quello giusto. A volte, però, ne passa uno veloce, proprio accanto a noi. Non abbiamo tempo. Dobbiamo decidere, subito, anche quando non abbiamo ben presente la destinazione. Ci sono convogli che passano una volta sola, sta a noi capire quanto bisogna rischiare.
L’istinto ci dirà di salire, il cuore ci dirà che era la cosa giusta da fare.

trentin



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