Calmo, sicuro, il professore siede in classe: gli strumenti sono pronti: piccole tavole con lettere, un libro con l’immagine di un pesce, fisch. Il maestro guarda gli allievi: egli sa già tutto quello che devono comprendere; sa in che consiste la loro anima, e varie altre cose che ha imparato al seminario.
Apre il libro e mostra il pesce. “Cari bambini, che cosa è questo?” i poveri bambini gioiscono vedendo il pesce, se però non sanno già, per averlo inteso da altri scolari, con quale salsa sarà servito. In ogni modo essi dicono: “E’ un pesce”. “No!” riprende il professore (tutto ciò non è un’invenzione né una satira, ma il racconto esatto di un fatto che , senza eccezione, ho visto in tutte le migliori scuole di Germania e nelle scuole inglesi che hanno adottato questo modo di insegnare). “No” dice il professore “che vedete dunque?”. I bambini tacciono. Non dimenticate che hanno l’obbligo di rimanere seduti, tranquilli, ciascuno al suo posto, e di non muoversi. “Dunque, cosa vedete?”
“Un libro” dice il più stupido. Durante questo tempo i bambini più intelligenti si sono chiesti mille volte ciò che vedono; essi sentono che non potranno indovinare ciò che esige il professore e che bisogna rispondere e che bisogna rispondere che questo pesce non è un pesce , ma qualcosa che essi non sanno nominare.
“Sì, sì” fa il maestro con gioia. “Benissimo, un libro e poi?” domanda il maestro.
I più intelligenti e spiritosi indovinano e dicono al maestro tutti orgogliosi: “delle lettere!” “No, non, niente affatto”, risponde con tristezza il maestro: “Bisogna riflettere prima di parlare”.
Di nuovo tutti gli intelligenti sono tristi e tacciono; non cercano neanche più; oramai pensano agli occhiali del professore e si domandano perché non se li leva piuttosto che guardare al disopra di essi. “Avanti dunque, che c’è nel libro?” Tutti tacciono. “Ma che cosa c’è qui?” “Un pesce!” dice un audace. “Sì, un pesce, ma è un pesce vivo?” “No, non è vivo” “Benissimo, ma allora è morto?” “No” “Bene, allora cos’è questo pesce?” “Una immagine”.
“Proprio così, molto bene!” Tutti ripetono: è una immagine, e pensano che sia finita. No, bisogna dire ancora che è un’immagine che rappresenta un pesce. E per la stessa via il maestro ottiene che gli allievi dicano che è un’immagine che rappresenta un pesce. Egli si immagina che così i suoi allievi ragionino e non gli passa nemmeno per la mente che, se ha l’obbligo di insegnare agli allievi a dire precisamente: è un libro con una immagine di un pesce, sarebbe assai più semplice dirla, questa formula straordinaria, e farla imparare a memoria.
racconto del maestro Iasnaja Poliana 1862
Questo piccolo brano l’ho estrapolato dal libro L’autoeducazione della Montessori.
Nella sua semplicità mi ha colpito per almeno due ragioni: ho potuto osservare come la pratica del raccontare l’evento didattico è sempre stata percepita come un passaggio utile e quasi naturale a cui il maestro è sempre ricorso per riuscire a fare chiarezza e a farsi chiarezza nel suo lavoro, ed ho potuto registrare come il rigidismo scientifico applicato in pedagogia acceca/rallenta il cammino pedagogico che sarebbe altrimenti più spontaneo e meno arzigogolato…
Il mestiere dell’insegnante è uno di quei lavori che non mostrano nell’immediato il frutto di quel che si è operato; lui va seminando nelle piccole anime dei suoi scolari tanti pensieri, sensazioni, impressioni, domande, disappunti, problemi, interrogativi, sfide, incomprensioni, indovinelli, curiosità, argomenti, interessi, scoperte… che sono tutto il grande universo dello stare in un luogo fatto apposta per apprendere, crescere, formarsi, educarsi alla vita, e non solo, si badi bene, alla scienza e all’arte.
Non bisogna dunque avere fretta di raccoglierne i risultati; tutto lavora in un mondo tanto sotterraneo, interiore, invisibile, impercettibile, quanto emergente, determinato, chirurgico, conseguente, di cui il domani sarà la risposta che si attende.
Il maestro è la stella cometa del suo gruppo classe; punto cardinale al quale rivolgersi, predisposto a fare luce, a indicare tutti i possibili sentieri che stanno sulla via che costituiscono le mille facce della realtà.
Bisogna solo che il maestro prenda coscienza di sè, prenda consapevolezza della propria forza e del proprio compito; nel momento in cui tale insegnante decide di concedersi all’insegnamento, tutto gli si può aprire come per incanto.
Che non vuol dire che finiscono le difficoltà, le incongruenze, le anomalie e le distorsioni del sistema formativo scolastico; SEMPLICEMENTE il maestro si fa carico della sua funzione, ne accetta il battesimo, come se andasse abbracciando una specie di religione.
In questi giorni ho potuto assistere ad un programma televisivo che riportava l’esempio educativo di tre centri d’accoglienza dell’infanzia abbandonata; centri sperimentali, centri d’avanguardia, nati dall’intuito e dallo spirito di semplici ed umili quanto indefessi fondatori che hanno voluto costruire qualcosa che rimanesse nella storia per il bene di tutti, di tutta la società.
Mi sto riferendo al già nominato e famoso fenomeno di Nomadelfia come ai collegi meno famosi ma non per questo meno preziosi che si sono posti il dramma del fanciullo che, una volta abbandonato, è solitamente condannato a vivere come un numero in istituti che somigliano sempre più a luoghi di vera e propria carcerazione.
Montessori, Milani, don Zeno, e molte altre pedagogiste/i del nostro recente passato, hanno dimostrato che il bambino ha solo bisogno sostanzialmente di una cosa per crescere bene: d’affetto.
Ma come, in un mondo che sembra avere messo i diritti degli animali e delle stesse piante in cima alle nostre stesse priorità, come può dimenticarsi ancora dei bambini e della loro infelicità?
Forse si può immaginare la risposta: gli animali e le piante non stanno lì a replicare il nostro operato, ma ogni errori che noi andiamo a perpetrare su un infante, è un debito che andiamo ad ascrivere nel nostro diritto/dovere di stare con giustizia nel mondo.
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