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I veri insegnanti si sono sempre raccontati…

Creato il 31 gennaio 2011 da Dallomoantonella

Calmo, sicuro, il professore siede in classe: gli strumenti sono pronti: piccole tavole con lettere, un libro con l’immagine di un pesce, fisch.  Il maestro guarda gli allievi: egli sa già tutto quello che devono comprendere; sa in che consiste la loro anima, e varie altre cose che ha imparato al seminario.

Apre il libro e mostra il pesce. “Cari  bambini, che cosa è questo?”  i poveri bambini gioiscono vedendo il pesce, se però non sanno già, per averlo  inteso  da altri scolari,   con quale salsa sarà servito.   In ogni modo essi dicono: “E’ un pesce”. “No!” riprende il professore (tutto ciò non è un’invenzione né una satira, ma il racconto esatto di un fatto che , senza eccezione, ho visto in tutte le migliori scuole di Germania e nelle scuole inglesi che hanno adottato questo  modo di insegnare).  “No”  dice il professore   “che  vedete dunque?”.  I  bambini   tacciono.  Non dimenticate che hanno l’obbligo di rimanere seduti, tranquilli, ciascuno al suo posto, e di  non muoversi.  “Dunque, cosa vedete?”

“Un libro”  dice il più stupido.  Durante  questo tempo i bambini  più intelligenti   si sono chiesti mille volte ciò che vedono; essi sentono  che non potranno indovinare  ciò che esige il professore e che bisogna rispondere  e che bisogna rispondere che questo pesce non è un pesce  ,  ma qualcosa che essi non sanno nominare.

“Sì, sì”  fa il maestro con gioia. “Benissimo, un libro  e poi?”  domanda il maestro.

I  più intelligenti e spiritosi  indovinano e dicono al maestro tutti orgogliosi: “delle lettere!”   “No, non, niente   affatto”, risponde con tristezza il maestro: “Bisogna  riflettere  prima di parlare”.

Di nuovo tutti gli intelligenti  sono tristi  e tacciono;  non cercano neanche più;  oramai pensano  agli occhiali del professore  e si domandano perché non se li leva  piuttosto che guardare al disopra di essi.  “Avanti dunque, che c’è nel libro?”  Tutti tacciono.  “Ma che cosa c’è qui?”  “Un  pesce!”  dice un audace. “Sì, un pesce,  ma è un pesce vivo?”  “No, non è vivo”   “Benissimo, ma allora è morto?”  “No”  “Bene, allora cos’è  questo pesce?”  “Una  immagine”.  

“Proprio così, molto bene!”   Tutti ripetono: è una immagine, e pensano che sia finita.  No, bisogna dire ancora che è un’immagine che rappresenta un pesce.  E per la stessa via il maestro ottiene che gli allievi  dicano che è un’immagine  che rappresenta  un pesce.   Egli si immagina che così i suoi allievi ragionino  e non gli passa nemmeno per la mente che,  se ha l’obbligo di insegnare agli allievi a dire precisamente: è un libro con una immagine di un pesce,   sarebbe  assai più semplice dirla, questa formula straordinaria, e farla imparare a memoria.

racconto del maestro  Iasnaja  Poliana  1862

Questo piccolo  brano l’ho estrapolato dal libro  L’autoeducazione   della Montessori.

Nella sua  semplicità  mi ha colpito per almeno due ragioni:  ho potuto osservare come la pratica del raccontare l’evento didattico è sempre stata percepita come un passaggio utile e quasi naturale  a cui il maestro è sempre ricorso  per riuscire a fare chiarezza e a farsi chiarezza nel suo lavoro,  ed ho potuto  registrare come  il rigidismo scientifico   applicato  in pedagogia  acceca/rallenta   il cammino  pedagogico che sarebbe altrimenti  più  spontaneo  e meno  arzigogolato…

Il mestiere dell’insegnante  è uno di quei lavori   che non mostrano nell’immediato il frutto di quel che si è operato;  lui va seminando nelle piccole anime dei suoi scolari  tanti pensieri, sensazioni, impressioni, domande, disappunti, problemi, interrogativi, sfide, incomprensioni, indovinelli, curiosità, argomenti, interessi, scoperte… che sono  tutto il grande universo dello stare in un luogo  fatto apposta per apprendere, crescere, formarsi, educarsi alla vita, e non solo, si badi bene,  alla scienza e all’arte.

Non bisogna  dunque avere fretta   di  raccoglierne  i  risultati;  tutto lavora in un mondo tanto sotterraneo, interiore,  invisibile, impercettibile,  quanto  emergente,  determinato,  chirurgico,  conseguente,  di cui il domani  sarà la risposta che si attende.

Il maestro  è la stella cometa del suo gruppo classe;  punto cardinale al quale rivolgersi, predisposto a fare luce,  a indicare  tutti i possibili  sentieri   che stanno sulla via  che costituiscono  le mille facce della realtà.

Bisogna  solo che il maestro prenda coscienza di sè,  prenda consapevolezza  della propria  forza  e  del proprio  compito;  nel momento in cui tale insegnante decide  di concedersi all’insegnamento,  tutto  gli si può aprire  come per  incanto.

Che non vuol dire  che finiscono le difficoltà, le incongruenze, le anomalie e le  distorsioni del sistema formativo scolastico;  SEMPLICEMENTE  il maestro  si fa  carico  della sua funzione, ne accetta il battesimo,  come se andasse abbracciando  una specie di religione.

In questi giorni ho potuto assistere ad un programma televisivo che riportava l’esempio educativo di tre centri d’accoglienza  dell’infanzia  abbandonata;  centri sperimentali, centri d’avanguardia, nati dall’intuito e dallo spirito di semplici  ed umili quanto indefessi  fondatori  che hanno  voluto costruire qualcosa  che rimanesse nella storia per il bene di tutti, di tutta la società.

Mi sto riferendo al già nominato  e famoso  fenomeno di Nomadelfia  come ai collegi   meno famosi ma non per questo  meno  preziosi  che si sono posti il dramma del fanciullo  che, una volta abbandonato, è solitamente condannato a vivere come un numero in istituti che somigliano sempre più a luoghi di vera e propria carcerazione.

Montessori, Milani, don Zeno, e molte altre  pedagogiste/i   del nostro recente  passato,  hanno dimostrato  che il bambino ha solo bisogno sostanzialmente   di una cosa per crescere bene:  d’affetto.

Ma come,  in un mondo che sembra avere messo i diritti   degli animali e delle stesse piante in cima  alle nostre stesse priorità,  come può  dimenticarsi  ancora dei bambini  e della loro infelicità?

Forse si può immaginare la risposta:  gli animali e le piante non stanno lì a replicare il nostro operato,  ma ogni errori che noi andiamo  a perpetrare su un infante,  è un debito   che andiamo  ad ascrivere   nel nostro  diritto/dovere di stare  con giustizia  nel mondo.

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