I versetti “imbarazzanti” della Bibbia: una buona risposta

Creato il 16 novembre 2012 da Uccronline

Una delle numerose accuse al cristianesimo cattolico è senz’altro quella di prendere alla lettera alcune parti accettabili della Bibbia, chiedendo di contestualizzare in relazione all’epoca in cui furono scritte e alla mentalità allora diffusa, le parti oggi inaccettabili. Un esempio è il versetto 21, 9 del Levitico (“Se la figlia di un sacerdote si disonora prostituendosi, disonora suo padre; sarà arsa con il fuoco.”) o i versetti 39 e 40 del capitolo 10 del libro di Giosuè (“La prese con il suo re e tutti i suoi villaggi; li passarono a fil di spada e votarono allo sterminio ogni essere vivente che era in essa; non lasciò alcun superstite. Trattò Debir e il suo re come aveva trattato Ebron e come aveva trattato Libna e il suo re. Così Giosuè battè tutto il paese: le montagne, il Negheb, il bassopiano, le pendici e tutti i loro re. Non lasciò alcun superstite e votò allo sterminio ogni essere che respira, come aveva comandato il Signore, Dio di Israele.”).

L’accusa è ovviamente quella di ignorare, o fingendo di ignorare, che in tali versetti – a quel che i cristiani stessi sostengono – parla pur sempre il Dio in cui dicono di credere. Si tratta di un’accusa che giustamente Marco Beccaria, nel suo blog su Panorama, ha definito la cherry picking fallacy (letteralmente, la “fallacia del raccogliere ciliegie”, altresì detta “fallacia di evidenza incompleta”), sostenendo e tentando di dimostrare, però, che «questo argomento sia a sua volta fallace, almeno nei confronti del cattolicesimo».

Infatti il cattolicesimo, spiega Beccaria, «non è una “religione del Libro”», lo dice il Catechismo della Chiesa cattolica al paragrafo 108: «La fede cristiana tuttavia non è una “religione del Libro”. Il cristianesimo è la religione della “Parola” di Dio, di una parola cioè che non è “una parola scritta e muta, ma del Verbo incarnato e vivente”. Perché le parole dei Libri Sacri non restino lettera morta, è necessario che Cristo, Parola eterna del Dio vivente, per mezzo dello Spirito Santo ci “apra la mente all’intelligenza delle Scritture” (Lc 24,45)». Il cristianesimo è un avvenimento, un’esperienza di vita nella comunità ecclesiale, e la Bibbia è -ha proseguito Beccaria- «il racconto, composito e articolato in una gran varietà di forme, di come questa esperienza si è svolta e sviluppata in una storia lunga più di tre millenni». Un cattolico non si approccia ad essa come un manuale da seguire pedissequamente, un libretto di istruzioni, un elenco di istanze etiche alle quali obbedire. Come invece sono tenuti a fare ebrei, sopratutto, e islamici.

Sempre proseguendo con le indicazioni della Chiesa, leggiamo che «nella Sacra Scrittura, Dio parla all’uomo alla maniera umana. Per una retta interpretazione della Scrittura, bisogna dunque ricercare con attenzione che cosa gli agiografi hanno veramente voluto affermare e che cosa è piaciuto a Dio manifestare con le loro parole [...]. Si deve tener conto delle condizioni del loro tempo e della loro cultura, dei “generi letterari” allora in uso, dei modi di intendere, di esprimersi, di raccontare, consueti nella loro epoca. “La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa nei testi in varia maniera storici o profetici, o poetici, o con altri generi di espressione». La Parola di Dio, dunque, va interpretata alla luce della Tradizione e della vita della Chiesa.

In molti ritengono che la Chiesa abbia iniziato ad “interpretare” la Sacra Scrittura soltanto in seguito allo scontro con la modernità (dopo Darwin, Copernico o Galileo), ma in realtà «chi conosca anche superficialmente un po’ di storia culturale della civiltà occidentale sa che le cose non stanno così e che l’idea che la Sacra Scrittura vada interpretata su più livelli, con strumenti culturalmente raffinati e anche al di là della mera ricezione letterale è antica come il cristianesimo stesso», ha commentato Beccaria. Origene di Alessandria, ad esempio, all’inizio del III secolo dopo Cristo spiega come la Sacra Scrittura possa e debba essere interpretata allegoricamente, in relazione al fatto che i suoi autori umani non sono meri strumenti inconsci, bensì contribuiscono alla nascita del testo biblico con le loro conoscenze e con il loro stile. Nei primi Concili ecumenici (Nicea, Costantinopoli, Efeso, Calcedonia), ancora, i dogmi fondamentali del cristianesimo – trinitario e cristologico – sono affermati mediando la rivelazione biblica in termini e concetti presi di peso dal contesto culturale greco (ousiaphysishypostasis). Anche Agostino, ha proseguito con gli esempi Beccaria, dopo la conversione ha superato  le sua difficoltà nei confronti del testo biblico ascoltando le prediche di Ambrogio, vescovo di Milano, il quale faceva largo uso dell’interpretazione allegorica e filosofica dell’Antico Testamento.

Fin dalle sue origini il pensiero cristiano «ha letto e interpretato la Bibbia come un racconto e una riflessione teologica stratificata, complessa, articolata, e perciò bisognosa del dispiegamento di tutti i mezzi culturali disponibili per decodificarne appieno il senso». La Chiesa ha sempre insistito nella necessità di abbinare sempre, come fonti della fede cristiana, Sacra Scrittura e Tradizione, cioè il testo sacro e la storia delle sue interpretazioni alla luce della fede e del Magistero della Chiesa.

Ovviamente alcune volte non è andata così, come mostra il noto “caso Galileo”, il cui errore -come ha affermato Giovanni Paolo II- «nel sostenere la centralità della terra fu quello di pensare che la nostra conoscenza della struttura del mondo fisico fosse, in certo qual modo, imposta dal senso letterale della S. Scrittura». Occorre dire che la posizione del cardinale Bellarmino, allora capo del Sant’Uffizio, era, in realtà, molto aperta. Innanzitutto fu disponibile ad accettare il copernicanesimo qualora fosse inteso non come una descrizione veridica della struttura fisica del cosmo ma come modello interpretativo della realtà, come di fatto sono le scoperte scientifiche. Inoltre, in una lettera nel 1615 a Paolo Antonio Foscarini, sostenitore del copernicanesimo, scrisse:  «quando ci fusse vera demonstratione che il sole stia nel centro del mondo e la terra nel terzo cielo, e che il sole non circonda la terra, ma la terra circonda il sole, alhora bisogneria andar con molta consideratione in esplicar le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che l’intendiamo, che dire che sia falso quello che si dimostra.  Ma io non crederò che ci sia tal dimostratione, fin che non mi sia mostrata […].». Moltissimi studiosi “laici”, infatti, contestavano il copernicanesimo e tanti sacerdoti invece lo sostenevano (Copernico stesso), nessuna lotta dunque tra geocentrismo ed eliocentrismo come una lotta tra scienza e religione.

Le richieste della Chiesa, nelle veci di Bellarmino, «di non rinunciare troppo frettolosamente a un modello perfettamente conciliabile con la lettera del testo biblico traduce certamente una profonda preoccupazione pastorale, ma correttamente collocato in prospettiva storica non è affatto irragionevole», il capo del Sant’Uffizio invocava «invoca prove e maggiore chiarezza in un momento in cui la comunità scientifica era spaccata», lasciando comunque intendere che di fronte a una dimostrazione chiara occorrerà considerare meglio le Scritture «che paiono contrarie, e più tosto dire che l’intendiamo, che dire che sia falso quello che si dimostra». Le cose precipitarono a causa di un conflitto personale tra Urbano VIII e Galileo, una rottura nel loro patto di fiducia, oltretutto il Papa era in quel periodo fortemente messo in discussione dalla Riforma protestante. In questo caso l’errore fu proprio quello di pendere maggiormente per la prudenza per evitare di contraddire un passo biblico sulla base di affermazioni ancora poco dimostrate, ma tuttavia «se Galileo fosse vissuto e avesse fatto le sue scoperte un paio di secoli prima forse avrebbe avuto un’altra accoglienza», ha commentato giustamente Beccaria.


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