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"Il termine vitelloni è un'espressione che veniva utilizzata a Pescara, città natale di Ennio Flaiano - autore del soggetto del film - nell'immediato dopoguerra. Flaiano, infatti, ha immaginato lo svolgimento della trama a Pescara sviluppandola intorno ad alcuni personaggi di finzione, ma rappresentativi di un modo d'essere dei giovani della città degli anni cinquanta. Il termine vitellò (vitellone), infatti, era usato a Pescara per indicare quei giovani nullafacenti che trascorrevano le loro giornate al bar o, comunque, senza lavorare. A quel tempo, tra i giovani era facile salutarsi dicendo "Uhe vitellò cum'a sti'?" ("ehi vitellone, come stai?"), sia perché la disoccupazione giovanile era dilagante, sia perché il termine era entrato nel gergo comune. Nel dialetto pescarese, il termine nel corso degli anni è scomparso"
Secondo film interamente di Fellini dopo "Lo sceicco bianco", fu quello che lo impose definitivamente alla ribalta internazionale con un grandissimo successo.
Fellini porta il soggetto di Ennio Flaiano da Pescara nella sua Rimini, ma la sostanza è la stessa. Protagonisti cinque amici: Moraldo (Franco Interlenghi), Alberto (Alberto Sordi), Fausto (Franco Fabrizi, doppiato da Nino Manfredi), Leopoldo (Leopoldo Trieste) e Riccardo (Riccardo Fellini, fratello del regista). Una vicenda con narratore fuori campo (Riccardo Cucciolla) ambientata nel 1953 che è quanto mai attuale, ma non è del tutto vero. Cinque amici che fanno gruppo, compagnia, giovani ormai adulti che dovrebbero lavorare, farsi una famiglia, così prevede la prassi, che invece proseguono indefessi la loro vita da scapoli nullafacenti in cerca solo di avventura, sogni, divertimento.
Film notissimo, non mi addentro in dettagli della trama che peraltro è una sequenza di episodi di vita riminese che vanno a ritrarre i protagonisti e il mondo che li attornia, e dal quale loro vogliono ricevere senza dare. In questa ennesima visione, a distanza di molti anni dalla precedente, la mia attenzione s'è rivolta ai singoli. Nella mente avevo la loro goliardia d'insieme, il famoso gesto dell'ombrello con sonora pernacchia di Alberto agli operai stradali, la malinconia del gruppo sul pontile al mare... è destino di molti Capolavori restare nella memoria per degli "appunti". Attualizzando i personaggi, oggi li chiameremmo "single" (termine moderno per glamourizzare i moralisti aggettivi/sostantivi "scapolo" e "zitella" che si usavano ai tempi; hanno abolito anche la parola "signorina", evocatrice di virginale zitellaggine quando non riferita a ragazze, oggi son tutte "signore"). Dicevo, l'attenzione spontaneamente m'è andata sui singoli, che si sono rivelati molto più diversi tra loro di quanto pensassi. Vorrei concentrarmi su ognuno di loro, sui quali Fellini pone attenzione differenziata anche nell'uso di luci e riprese, occorre farci caso perché è tramite le immagini che mi ha trasmesso queste sensazioni forse più che con le loro vicende personali. Se nei momenti ad ampia partecipazione, come il concorso delle miss, il matrimonio, il grandioso carnevale prima in strada e poi in teatro (sicuramente il momento più felliniano, come diremmo oggi), Fellini crea le sue atmosfere sospese nel tempo, è nei momenti in cui concentra l'attenzione su ognuno di loro che differenzia.
A Riccardo è toccato il ruolo più superficiale ma rimane degno di nota. E' proprio Il Superficiale. Trascina la sua esistenza nell'effimero più assoluto, mai un sussulto, solo esteriorità, sempre allegro, accompagna le vicende dei compagni. Coperto, in retrovie, spesso non a fuoco, raramente nitido e illuminato se non nei momenti più attivi di gruppo, vive di riflesso sugli altri quattro che hanno tutti qualcosa in cui emergono. Un "tender", che in questa metafora ha la sua ragione.
Leopoldo, scrittore fallito, come Riccardo pare non avere nemmeno una famiglia di origine. Il suo "intellettualismo" svanisce alla prima occasione di conquista di una donna. Ha dalla sua il sogno di vedere rappresentata una sua commedia alla quale lavora da sempre. Com'è ben illuminato quando cerca l'ispirazione con la penna in mano, come sarà al buio, in uno dei momenti più neri del film, quando scoprirà che l'attore da lui corteggiato per i suoi scopi, che più gli ha fatto pensare che l'obiettivo era vicino, chiederà in cambio sodomitiche attenzioni. Poco prima di quel momento, tramite Leopoldo arriverà la prima osservazione netta e testuale riguardo alla provincia, quella dove vive e italiana in generale: se vuole realizzare qualcosa deve andare in una grande città.
Fausto è orfano di madre. Bellissimo, è fatale per le donne così come loro sono fatali per lui e dovrà sposare la sorella di Moraldo dopo averla messa incinta. Decisamente un Casanova in ogni senso, con un complesso edipico irrisolto, tanto che ci proverà persino con l'attempata moglie del suo datore di lavoro, con conseguenze immaginabili. Mentitore spudorato, scansafatiche come e più degli altri, luci ed ombre su di lui si alternano con grande varietà. Emblematico il lato oscuro, che taglia il viso suo e della moglie del padrone, quando nel retrobottega le sue advance si fanno esplicite, un aspetto luciferino gli viene. Illuminato, bambino e indifeso col padre che "finalmente" lo prenderà a cinghiate, episodio che fa pensare moralmente sul film, ché Fausto tornerà come un agnellino dalla moglie. Lo vedremo nel finale nel letto con lei e il figlio. Forse Fellini ci ha voluto dire qualcosa? Se sì non è del tutto chiaro, la scena chiude troppo brevemente con un sipario nero. Quelli come Fausto, secondo me, non cambiano.
Alberto è un altro complesso edipico da valutare. Vive con la mamma e una sorella che è il suo contrario, seria e lavoratrice. E' la sorella che mantiene la famiglia eppure lui non si fa remore nel rampognarla perché lei ha una relazione con un uomo separato (ovviamente è sposato legalmente, non c'era il divorzio ancora in Italia). Vorrebbe essere il padre che non c'è più, in realtà è un mammone viziato e stupido, bravo solo nella buffoneria. Ma quanto è bravo Alberto... capace di eccessi in un senso o nell'altro riuscendo a risultare non credibile nemmeno quando piange. Piange sinceramente la dipartita della sorella? Attore nell'attore, è un personaggio che vive in un inganno che s'è costruito inconsciamente, vuole la vita facile ed apparire responsabile e maturo quando occorre. Capolavoro di Fellini e di Alberto Sordi. Quando farà il gestaccio agli "operai della massa" sarà lui in primo piano e dietro il cielo che è un cielo vuoto, senza nuvole né segni che diano un'idea di spazio colmato, un deserto infinito che è il suo essere, inutile. Quella che però dev'essere la sua icona in questo film, secondo me, è l'immagine di lui al termine della festa in teatro, dove si è recato vestito da donna e finisce per apparire come un clown piangente, non occorre commentarla tanto è suggestiva e a un tempo eloquente.
Moraldo lo possiamo pensare, con un po' d'azzardo, a quello che più di tutti rappresenta lo stesso Federico Fellini. Tranquillo, posato, poetico, anche in qualche modo nichilista nella sua rassegnazione ad una vita che in quei luoghi e termini non vede avere sbocchi. La sua è una figura in perenne chiaroscuro, indefinita, la sola che mostra una chiara empatia sincera verso tutti che però non può evitare di farsi trascinare in qualche marachella, chiamiamola così. S'illumina quando parla col bambino, che è un fattorino, indossa allegramente una specie di divisa, cosa che dà un'idea di innocenza per l'età e di ordine laborioso per l'aspetto. Quel bambino, con la voce dello stesso Fellini in doppiaggio, lo saluterà quando prenderà il treno con cui partirà, destinazione ignota.
Quando all'inizio dico che questa storia sembra attuale ma non è del tutto vero mi riferivo a delle considerazioni di contesto sociale che non vanno a mio parere tralasciate. Anch'io da ragazzo ho usato la parola vitelloni con gli amici. Dire che uno "faceva il vitellone" indicava che si godeva la vita e possibilmente avventure amorose all'insegna esclusiva del disimpegno. Però eravamo nei primi anni '80 nel mio caso, non nel 1953 e cioè ad appena 8 anni dalla fine della seconda guerra mondiale che lasciò buona parte del mondo, e l'Italia peggio di altri, in una situazione completamente da ricostruire anche nelle relazioni umane.
Che ragazzi uscirono dalla guerra? I nostri cinque in questione tra il '40 e il '45 avevano tra i 15 e i 20 anni circa. Ne parlai già in occasione di uno dei capolavori di Michelangelo Antonioni, "I vinti", titolo fin esplicito per un film dello stesso anno di questo. Quella recensione la chiudo così: "Questi giovani sono stati vinti dalle illusioni, rincorrono facili successi, pensano la felicità sia misurabile in termini di fama o denaro e per questo sono anche molto facilmente ingannabili. Comunque vadano le cose, che riescano o meno a raggiungere l'agognata felicità materiale, sono dei perdenti.". Sono parole che nel senso calzano anche qua, "I vitelloni" però dà più speranze.
Gli italiani erano figli della guerra che ci aveva visti perdere su tutti i fronti e solo grazie ai partigiani in parte risorgere come popolo nella sua dignità. (A questo proposito ho cercato di capire se compare nel film la famosa piazza centrale di Rimini dedicata ai Tre Martiri ma non sono riuscito a capirlo). Non solo la guerra, ma un ventennio di scadimento morale ed etico, dove tutti i valori sociali in cui persone appassionate potevano credere e che facevano leva sugli entusiasmi giovanili, come l'attaccamento alla patria e alla bandiera, l'onore, erano stati fatti in pezzi. Non assolvo in alcun modo questi "inutili", ma non confondiamo il loro modo di essere con quelli dei viziati, edonistici, paragonabili giovani che facevano le stesse cose negli anni '80. I presupposti sono troppo diversi.
Robydick
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