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I vostri contributi - Saggi, di Eugenio Giannone

Creato il 11 gennaio 2012 da Edizionidelcalatino

La lunga marcia verso i Dirittidi Eugenio Giannone  
   “Io detesto ciò che dici ma difenderò fino alla morte il tuo dirito a dirlo”       (Voltaire)
   Il concetto di autorità è insito nella natura umana, un capo, materiale o spirituale che sia, è sempre esistito. In qualsiasi gruppo, e ce ne accorgiamo in ogni occasione, tra amici, conoscenti etc, c’è sempre uno che emerge per capacità organizzative, esperienza, intelligenza o, diciamolo pure, per prepotenza. Per l’uomo primitivo questa autorità è rappresentata dall’essere supremo, signore dell’acqua e del fuoco, del caldo e della pioggia, dispensatore di buoni raccolti o di carestie.   Col trascorre del tempo l’autorità si trasferisce sul piano umano: nel nucleo sociale primordiale la famiglia dipende dal patriarca; nelle tribù si avrà il capotribù e poi il capovillagio, coadiuvato talvolta dal Consiglio degli anziani.   Con la nascita di quella che chiamiamo civiltà il principio di autorità viene incarnato dai faraoni, sovrani figli di dio e, quindi, dei essi stessi, o da un re in stretto contatto con la divinità comei sovrani assiro-babilonesi, arconti, consoli, imperatori, sultani etc.   E’ chiaro, però, che il principio di autorità ne presuppone un altro, cioè il concetto di sudditanza o dipendenza. Emerge comunque il bisogno perenne di qualcuno che governi,di un organismo, di un sistema che regoli il vivere comune.   Il fatto che l’autorità sia cominciata con Dio ha fatto sì che la stessa autorità umana si colorasse di divino: il faraone era un dio e la sua anima, il Ka, rappresentava l’anima di tutto l’Egitto;negli angoli più remoti dell’impero romano si edificavano templi all’augusto e per lui si sacrificava; persiani e bizantini si prostravano dinanzi ai loro re.   Col Cristianesimo cade l’idea del’imperatoe-dio; rimase però il concetto che il potere temporale sia emanazione di quello spirituale e il papa, sovrano temporale pure lui, avocherà a sé il diritto d’incoronare re e imperatori (il discorso dei “due soli” di Innocenzo III). In quato modo il sovrano sarà autorizzato da Dio a regnare sui suoi sudditi: sovranità per diritto divino, espressione delle grandi monarchie europee dei secoli scorsi.  La monarchia per diritto divino, al di là dell’esistenza di parlamenti più o meno fasulli, presupponeva che contasse la volontà di uno solo; abbiamo così l’assolutismo “felicemente” incarnato dal Re Sole (Etat c’est moi), che effettivamente splendeva ma … di lerciume!   Accanto al principio di autorità, che spesso è prevaricante, c’è un altro bisogno innato nell’uomo: il bisogno e il diritto alla libertà, che l’uomo acquista nel momento in cui compie autonomamente la prima azione.    A dare una spinta decisiva al principio di libertà fu il Cristianesimo che affermò che l’imperatore era uguale all’ultimo dei suoi schiavi e che tutti gli uomini sono uguali dinanzi a Dio e alla legge.   Il messaggio cristiano, in un mondo basato sulla schiavitù e sulla discriminazione, suonò francamente rivoluzionario e per questo  motivo Cristo venne crocifisso e i Cristiani perseguitati.   A lungo i principi di libertà e uguaglianza, intangibili sul piano spirituale, rimasero inoperanti sul piano pratico. Durante il feudalesimo, con la sua catena di investiture, le libertà individuali sembrarono perdersi, ma l’avvento dei liberi Comuni scardinò quel sistema basato sul privilegio e sull’ingiustizia.   Il rinnovamento in tutti i campi e, nel nostro caso, il movimento di pensiero, iniziato in Italia attorno al 1000, dopo avere investito tutti i paesi europei, si affermò prepotentemente nel secolo XVI col nome di Rinascimento, che segna il trionfo dell’umanesimo, cioè della riscoperta dell’uomo, che diventa misura di tutte le cose, con la sua facoltà operativa e di giudizio e la sua libertà di pensiero e di fantasia.   Tappe fondamentali per l’affermazione dei Diritti Umani, intesi in senso moderno, furono la ribellione dei Paesi Bassi contro Filippo II di Spagna e la Rivoluzione inglese contro Carlo I Stuart che, nel 1648, aveva sfacciatamente affermato in Parlamento che “giustamente il re è chiamato figlio di Dio, poiché egli esercita una specie di potenza divina”; gli aggettivi attribuiti a Dio erano presenti nella sua persona. Cos’, però, non la pensavano i suoi sudditi che gli imposero la Petition of Rights e terminarono la partita col sovrano facendone rotolare la testa nel paniere del boia.   Altra tappa fondamentale sulla strada dei Diritti umani è la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America, che ribadì, se ce n’era bisogno, che tutti gli uomini erano stati creati uguali e liberi;la novità di quella Dichiarazione consiste nell’affermazione che dalla convivenza collettiva e dalla volontà popolare derivano tutti i principi costituzionali. Si arriva così alla tappa fondamentale: la Rivoluzione francese, che avrebbe spazzato via l’ancien regime e diffuso ai quattro venti i principi fondamentali, il credo dei rivoluzionari del 1789: liberté, egalité, fraternité. Il terreno rivoluzionario era stato preparato da quella corrente di pensiero che chiamiamo Illuminismo, che fece compiere un passo decisivo al principio di libertà ed eguaglianza. Davanti alla ragione crollano le artificiose gerarchie basate su privilegi di sangue e di casta; diventa inconcepibile che un uomo, nato da una coppia normale e nelle cui vene scorra il mai visto sangue blu,  diventi arbitro della vita e d ella morte di una moltitudine di esseri. Non è la negazione del principio di autorità ma il convincimento che d’autorità bisogna investire solo colui che dà affidamento di poterla gestire con la fiducia e il consenso del popolo.   La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 4 agosto 1789 consiste in un elenco di postulati politici volti a distruggere disparità e privilegi e comprende l’enunciazione di alcuni principi che rappresentano ancor oggi il risultato permanente della Rivoluzione francese:·   Gli uomini nascono e  rimangono liberi e uguali nei diritti;·   Scopo di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali dell’uomo: la libertà, la sicurezza, la resistenza all’oppressione;·   Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione.   Con la Rivoluzione francese si chiude definitivamente l’era dei governi assoluti e si apre quello delle costituzioni liberal-democratiche; poco conta se durante l’’800 e nel ’900 si sono avuti rigurgiti di autoritarismo: il dado era ormai tratto e non si poteva tornare indietro. Avere un parlamento rappresentò il passaporto per essere annoverati tra le nazioni civili. La Duma russa era una finzione. La riscossa in quella grande nazione partì dal socialismo, che sarebbe riuscito, in qualche modo, là dove aveva fallito il Cristianesimo, che – come aveva scritto precedentemente il Mazzini, non riferendosi all’impero zarista – aveva liberato gli individui ma non affrancato i popoli. Un nuovo modello di giustizia sembrò essere nato con la Rivoluzione d’Ottobre: “la giustizia proletaria”, che avrebbe dato prova di sé per più di 60 anni, condannata dalla storia. Il popolo russo è molto religioso e non ignorava i principi del Cristianesimo; se esso non aveva fatto breccia sulla strada dei diritti come nelle altre nazioni europee, si deve alle connivenze tra l’alto clero  ela gerarchia politica, come in alcuni altri paesi. Oggi l’ex-Unione Sovietica sembra incamminata sulla strada della democrazia.   Più di due secoli son passati ormai dalla presa della Pastiglia e troppo spesso l’uomo ha fatto ricorso alla più orrenda delle sue invenzioni, la guerra, coinvolgendo per ben due volte l’umanità intera in due immani conflitti, i cui effetti non sono del tutto riassorbiti e ledendo il più elementare dei diritti umani: il diritto alla vita da cui dipendono tutti gli altri.   Il 10 dicembre 1948 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, al fine di preservare l’umanità da catastrofi come quelle che l’avevano scossa tra il 1939 e il 45 ( la seconda guerra mondiale causò più di 55 milioni di vittime) e al fine di rimuovere tutti gli ostacoli che si frappongono al riconoscimento e al rispetto dei Diritti Umani, in considerazione che il disconoscimento di tali diritti ha portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità; che è indispensabile che i Diritti umani siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che gli uomini ricorrano alla ribellione contro la tirannide  e l’oppressione; che è indispensabile promuovere lo sviluppo di rapporti amichevoli tra le nazioni; che l’avvento di un mondo in cui gli esseri godano della libertà di parola, di credo e della libertà dal timore e dal bisogno costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo promulgava solennemente la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, votata all’unanimità da tutti gli stati facenti parte delle Nazioni Unite.   La Dichiarazione si compone di 30 articoli ed enuncia i principi generali che devono guidare le giovani generazioni e gli adulti incaricati della loro educazione.  Il secondo comma dell’art. 26 afferma che “l’istruzione dev’essere indirizzata  al pieno sviluppo della personalità umana e al rafforzamento del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Essa deve promuovere la comprensione, la tolleranza, l’amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi…”. Un ruolo molto importante nell’educazione dei giovani viene assegnato alla famiglia. Ora, è chiaro che la famiglia da sola non può assicurare un certo grado d’istruzione ai suoi componenti per cui, ad un certo momento, è dovuto intervenire lo stato, inteso come comunità, con l’istituzione della scuola, facendo dell’istruzione non più un privilegio di pochi ma un diritto di tutti, almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali; per dieci anni recita la nostra Costituzione all’art. 34. Fine essenziale dell’educazione è, ripetiamo, lo sviluppo di tutte le facoltà dei giovani, la formazione di persone che possiedano alte qualità morali, profondamente attaccate agli ideali di pace, giustizia e libertà, al rispetto dei propri simili e della loro creatività. Ma c’è un ostacolo, spesso insormontabile, che si frappone al raggiungimento di questo obiettivo e limita la libertà  e l’eguaglianza dei cittadini: l’ignoranza che, col retaggio di pregiudiziali che ci trasciniamo dietro da secoli è la causa prima di tutte le disuguaglianze e sperequazioni sociali. La scuola, prima d’insegnare a leggere e scrivere, ha il compito fondamentale di liberare l’uomo da questo fardello, di fornirgli una discreta cultura, intesa non come coacervo di date, nomi, numeri, definizioni o principi e verità assiomatiche, ma come rispetto delle idee degli altri, come possibilità di mettere gli altri in grado di capire giudicare, di renderli tolleranti, di non fare di nessuno di noi un’isola, ma esseri che sappiano apprezzare quel meraviglioso dono che è la vita ed abbiano rispetto di se stessi perché, se non si ha rispetto di sé, difficilmente se ne potrà avere per gli altri.   La scuola deve insegnare ed inculcare nei giovani i principi che regolano la convivenza civile: giustizia e libertà; la scuola deve predicare la collaborazione tra simili; insegnare che la nostra libertà finisce quando intacchiamo quella degli altri e che le idee dei nostri simili vanno comunque rispettate anche se non collimano perfettamente con le nostre: “Io detesto ciò che dici - diceva Voltaire - ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”   La scuola, quindi, come pratica di libertà; ma essa non va lasciata sola.
Per una lettura storico-sociologica diGabrieli, lu carusu di Alessio Di GiovanniAnnotazioni a margine di Eugenio Giannone 
   1. Si può leggere, riflettere o scrivere sulla storia d’un paese attraverso l’analisi di un’opera teatrale? Più che altro queste possibilità vengono concesse dai romanzi storici o d’ambiente, talvolta dall’intera opera poetica d’un autore; può accadere, parlando di costumi, con delle commedie, ma difficilmente capita con un dramma. E’ quanto ci è capitato con “Gabrieli, lu carusu” dramma in tre atti, scritto dal poeta, romanziere e drammaturgo ciancianese Alessio di Giovanni durante le vacanze pasquali del 1909, “dopo averci pensato su almeno per una ventina d’anni”. Gabrieli, lu carusu era stato scritto – come egli stesso informa nella prefazione a Teatro siciliano (Studio Editoriale Moderno, Catania 1932), intitolata Come andò che divenni drammaturgo - per Mimì Aguglia, l’attrice che aveva portato al successo in tutto il mondo Scunciuru e che chiese al Di Giovanni di tradurglielo in italiano. Il poeta, piuttosto che togliere al lavoro la sua principale caratteristica, consistente, come aveva notato col consueto acume critico Luigi Russo, nella vigoria di espressioni dove di scorcio si racchiudono stati d’animo dolenti, umoristici, maligni, miserabili, in un linguaggio sempre fuso e …scavato nel cuore della passione, credette opportuno non contentare il desiderio della prestigiosa attrice, rinunciando a lauti guadagni. “Gabrieli” piaceva così com’ era stato concepito ed in data 10 maggio 1910 da Catania così il Verga scriveva al nostro: “Questa è arte schietta, riproduzione viva e sincera della vita. La parlata di quei minatori, di quei carusi, di quel frate che sembra aver conosciuti!”   Il dramma fu dato per la prima volta all’Olympia di  Palermo, nel novembre 1911, da Tommaso Marcellini e riscosse un notevole successo nonostante la misera messa in scena e la compagnia non fosse pienamente attrezzata ad affrontare il duro cimento. Scrivendo il suo dramma, il Di Giovanni aveva voluto “dare il sigillo dell’arte a quelle scene alle quali aveva assistito per tanti e tanti anni”, riportando sulla carta, “pari pari”, le espressioni così com’erano uscite dalla bocca di quei personaggi, vere creature vaplatanesi nella spiccata fisionomia, nel linguaggio, nei sentimenti,  dei quali avrebbe potuto indicare nome e cognome   La rilettura del dramma digiovanneo Gabrieli, lu carusu ci induce ad alcune riflessioni e  puntualizzazioni per ristabilire, correggendo, alcune verità storiche chiarificatrici senza, per ciò, intaccare il valore letterario e teatrale dell’opera, che è un grande affresco di quel triste mondo e senza con ciò voler accusare il Di Giovanni di travisamento o manipolazione dei fatti, ché il poeta, lo scrittore ha il diritto di trasfigurare senza alterarli o per darne un’interpretazione di parte. All’artista, ribadiamo, è concessa la facoltà del vero poetico, della virtualità; ma chi si occupa di storia patria ed è a conoscenza di particolari di storia locale ha il diritto-dovere di precisare, puntualizzare per offrire un contributo di conoscenza ad una migliore, più attenta analisi degli eventi del passato.   Gabrieli, lu carusu, dicevamo, è un grande affresco, l’analisi lucida di uno spaccato sociale, ciancianese e siciliano, dell’ultimo scorcio del XIX secolo, che fu ricco di fermenti sociopolitici e vide, per la prima volta, alla ribalta della storia, finalmente da protagoniste, le classi umili e popolane.  La figura di questo caruso, non più adolescente – è già in età di prender moglie -, viene delineata ad apertura del dramma dal Di Giovanni, che attraverso Gabriele, “ingenuo e caldo cuore di poeta”[1], pronto sempre ad accorrere là dove c’è bisogno d’un cireneo, porta “un raggio di bontà serena e forte” a rischiarare lo spettacolo lugubre e tenebroso della miniera; a riaffermare il concetto dell’ing. R. Travaglia, che in un suo studio aveva definito lo zolfataro generoso per natura, capace di gesti eroici, affezionato a chi lo stima e lo rispetta[2].    Ma lo fa dipingere meglio da un altro personaggio, fra Sarafinu – rappresentante di quel mondo conventuale che tanto attrasse la curiosità dello scrittore ciancianese, che di monaci, santi e “fausi”, popolò le sue opere, ed esponente di quei confrati che, dopo il 1866, allorché il Convento dei Frati Minori Riformati fu avocato dallo Stato italiano, dovettero tornare al laicato, presso le famiglie d’origine o vivere d’espedienti – che lo chiama “misseri e minchiuni”.   Gabriele è messere perché d’animo nobile, generoso, pronto a dare la vita per i compagni di lavoro e per gli altri, perché in nome dell’affetto verso la madre si astiene dal compiere gesti inconsulti; ma è anche minchione perché privo di una coscienza di classe in un momento storico in cui non era consentito essere neutrali o, addirittura, schierarsi con l’avversario atavico.   L’astio nutrito nei confronti del Rabbiu, suo picconiere e  perciò suo padrone, o l’amore silenzioso e senza speranza verso donna Faustinedda non giustificano la  sua indifferenza o la sua ingenuità e, una volta tanto, sembra avere ragione quel falso socialista del Rabbiu, che, incontrando Gabriele convalescente nel suo tugurio, dopo che questi gli ha ribadito di appartenere al partito dei notabili (“di la pecura sugnu e di la pecura vogliu essiri…”), esclama infuriato: “…Li patruna!... Mi nesci lu ciriveddu!...Patruna di chi?... Ma chi ti fannu?... Ti dunanu a manciari? Ti vestinu? T’hannu a lassari la benservita?... O ti fannu cchiù leggiu lu saccu quannu carrii a la pirrera?...” (Atto II).   A Gabriele, che risponde con una scrollata di spalle, non interessa. Il suo comportamento desta anche perplessità nei “padroni”: “…’Un cci va, Gabrieli, cu lu tò pirriaturi, a fari lu ’ncontru a chiddi di lu Fasciu?” - chiede incredula donna Crocifissa Alaimo, che aggiunge: “’A ’un cci si’ socialista tu?”; mentre Fra Sarafinu lo prende bonariamente in giro affermando: “… Vidi ca, accussì, quannu veni l’ura di la spartuta di li terri, a tia nenti t’attocca!”. Il frate, don Alfonso,donna Crocifissa  e tutti gli altri sanno che la parentesi fasciante non avrebbe approdato a nulla (convinti che il Governo centrale, prima o poi – come di fatto avvenne – sarebbe intervenuto a restaurare il loro ordine) ma percepiscono strano l’atteggiamento di Gabriele, caruso che per riscattarsi avrebbe dovuto restituire duecento lire. Ma la sua posizione non è meno deprecabile di quella di altri, che non si erano resi conto della direzione che stava prendendo la storia.   Nel 1893 a Cianciana un caruso grande guadagnava max 130 lire al giorno; per saldare il soccorso morto a Gabriele sarebbero occorsi 154 giorni lavorativi e mettere tutto da parte. Impresa impossibile, come ci apprestiamo a spiegare, per lui e tanti altri sventurati condannati a “schiavitù ’n vivenzia”.    Il “soccorso morto[3] era una pratica riprovevole molto diffusa ma doppiamente necessaria. Per la famiglia, che tramite la cessione del ragazzo riceveva un anticipo (soccorso) in denaro o generi alimentari su quanto lo sventurato – si era carusi dagli otto ai sedici anni, ma si poteva esser tali per tutta la vita - , avrebbe potuto guadagnare lavorando, e per il picconiere che generalmente ne aveva due/tre e in questo modo si assicurava gli addetti necessari  a sgombrare il terreno del materiale che aveva picconato e poteva avanzare nella galleria estirpandone altro che gli veniva pagato a cottimo.   Il caruso sarebbe diventato libero con l’estinzione del debito; ciò, in pratica, non avveniva mai perché egli percepiva solo magri anticipi ed era costretto a comprare quanto gli serviva per il sostentamento giornaliero (la “spisa”)  presso magazzinieri di pochi scrupoli che, d’accordo col picconiere garante con un buono acquisto e vero padrone del giovane, facevano la cresta su ogni genere, quasi sempre di scarsa qualità (cfr. a proposito della spisa, nell’atto III, il dialogo tra cummari Filicia e mastru Jacintu). Capitava, quindi, che, a conti fatti, il caruso si trovasse sempre più oberato di debiti che accrescevano il soccorso iniziale e non servivano le rinunzie per mettere da parte qualcosa. Da mangiare: solo pane.    Significative le parole che Gabriele rivolge a Gesa (inizio dell’atto III), dopo averle offerto un tozzo di pane: “Arrobbaccillu tanticchia d’ogghiu a lu pirriaturi” per intingervi l’alimento.   Sul lavoro dei carusi in zolfara esiste una vasta letteratura, per cui non è necessario indugiare sulla sua figura di reietto della società dello zolfo.   Ma anche Gesa è una carusa, anzi un’excarusa, che le circostanze della vita spingono un’altra volta in miniera. La “carusa” non è invenzione letteraria. Nel 1881 a Cianciana le donne impegnate in zolfara erano ben 90/597 addetti. E’ strano, tuttavia, che il drammaturgo ciancianese affermi che nel 1893 non vi lavorino più: “ghiustu ghiustu ora ca ‘un cci nni scinninu cchiù carusi fimmini, nni li pirreri! – fa dire a Gabriele.   Non era così, perché le donne vi hanno continuato a lavorare ancora per decenni, come personalmente ci risulta per testimonianza di vecchi zolfatari, le cui nonne hanno esercitato quel mestiere.   Si trattava generalmente di adolescenti dai nove ai sedici anni che lavoravano in zolfara nei mesi estivi, trasportando ganga dal boccaporto (vucca)  della miniera ai punti di accatastamento e quantunque non fossero occupate in lavori sotterranei venivano a contatto con uomini nudi o seminudi (la temperatura nelle gallerie era altissima e i picconieri lavoravano  pressoché nudi), che spesso ne abusavano e le costringevano al meretricio, cui esse talvolta si davano anche autonomamente per la disistima in cui erano cadute e a nulla valeva che, sui diciassette anni, età da marito, le famiglie le ritirassero. Ormai il danno era stato fatto[4].   Gesa desta prima commiserazione e rispetto; dopo, quando riprende a “carriari surfaru” e lu Rabbiu ne approfitta, solo disprezzo. Gli uomini la circuiscono, si prendono gioco di lei; cummari Filicia, divenuta vivandiera, la definisce malacunnutta e la caccia via dal suo spaccio.    A nulla erano valsi gli ammonimenti di Gabriele, che l’aveva invitata a stare in guardia, ricordando “comu cci finìu … a Maria Cona, a Giuseppa Chiazza, a Turidda, la figghia di cummari Tana”.  “E li genti c’hannu a diri?... doppu ca la prima vota si la sarvàu petri petri, si va a jetta arreri nni li granfi di lu nigghiu!” (Atto I).   Ma il desiderio della ragazza di stare vicino all’uomo che ama è più forte del senso dell’onore. Un’altra “disattenzione” riscontriamo nel I atto di Gabrieli, lu carusu.  Il Di Giovanni ambienta la scena del matrimonio agli ultimi di aprile (1893) e fa sentire agli invitati il suono di una brogna (tromba, buccina), che annuncia la sfilata dei fascianti di Bivona e paesi viciniori accorsi a Cianciana a festeggiare il Fascio locale. Non ci risulta, perché il Fascio dei lavoratori di Cianciana fu fondato solo il 15 ottobre 1893, alla presenza del De Luca e di rappresentati di altri Fasci[5].  Ma forse, scrivendo sul filo della memoria, a distanza di sedici anni da quegli avvenimenti, la confusione era inevitabile. Non c’è molta differenza tra una giornata degli ultimi d’ aprile e una di metà ottobre. Non sono invenzione del Di Giovanni i nomi dei due partiti che allora si contrapponevano a Cianciana, al di là di qualche repubblicano convinto come Pietro Antinori. I “galantuomini” erano effettivamente raccolti attorno alla “Pecura”,  in un partito che potremmo definire conservatore; mentre i meno abbienti, i proletari e qualche borghese di larghe vedute militavano nel “Crastu”, che in qualche modo potremmo assimilare ai progressisti, ma non ai socialisti, perché quel partito era appena nato, aveva ben altri interessi e diritti da difendere che non quelli del Rabbiu  e dei Marvugghia di turno, che il Di Giovanni definisce falsi socialisti. Uomini come suo cugino Vincenzo Guida, inteso Lu Mattu, potevano solo sporcare con la loro presenza gli ideali del Partito Socialista, cui in gioventù e prima che nascesse Il Partito Popolare, il vate ciancianese aveva guardato con interesse e simpatia.   Lu Rabbiu o Lu Mattu non poteva essere assolutamente un socialista convinto. E’ l’astio, l’odio verso chi detiene il potere, la consapevolezza di non poter contare nulla tra i pecoristi che lo spinge nel Fascio a farne il suo trampolino di lancio e forse anche per svuotare quel movimento della sua carica ideale.   Non poteva essere socialista quantunque vi si atteggiasse (“…Malidittu lu primu di nuvemmiru!... Tu foddi si’!... Nun s’av’a diri cchiù ca li carusi di Ciccu Muntarbanu fannu li servi e liccanu li piatta a sti porci galantomini! Chi li putissiru abbruciari tutti di lu primu sinu all’urtimu…”  e  “Ca, nni stu paisi, cc’è la culliganza di li cappeddi ca, finta di serviri a lu populu, penzanu pi la so sacchetta e pi l’amici, e di li sancisuchi cu la cricchia… ca si vivinu, ogni jornu, lu sangu di Gesù Cristu”. Atto I), perché uomo grezzo, bestemmiatore, senza un briciolo di cultura o ampie vedute, arrogante, prepotente, predicatore da strapazzo che assume pose messianiche (Io sono più potente di Dio), prevaricatore e, perciò, mafioso che pretende da Gesa il baciamano e usa parole  e gesti d’imperio (“Haju a parrari ‘na vota sula!” – “Jiu sulu cci cumannu supra di vostra figghia… a la pirrera e fora…” – “Comu la negghia hâ spiriri davanti all’occhi mei quannu Ciccu Muntarbanu ti lu cumanna!”). Anche gli altri picconieri lo sanno, seppur lo temano per il suo carattere violento: “…patri di tutti e parrastru di li so’ carusi! E un patri poi, ca nun cci voli muriri ‘mmenzu a li so figghi! Jìu all’isula e ora voli jiri ‘n galera” (Atto III).    Un delinquente, insomma, che non esita a irretire altri zolfatari spingendoli all’omicidio.   Chi era in realtà Lu Rabbiu? L’embrione del personaggio viene sicuramente al Di Giovanni dal cugino Vincenzo, ma sicuramente egli nel delinearlo nel suo dramma sulla zolfara si ispirò ad altre figure, commistionandole. Furono tre i ciancianesi che, coinvolti nella vicenda dei Fasci che tanto aveva tolto il sonno ai “cappeddi” (“Nun si cci po’ dari cchiù li carni”!), finirono all’isola: Domenico Di Rosa, Alfonso Cosenza e Giuseppe Trafficante, che i tribunali crispini inviarono a soggiorno coatto a Lampedusa. Ma la fotografia della Cianciana di fine Ottocento continua e il Nostro è una preziosa fonte storica. Si dilunga sulla vena poetica degli zolfatari, che hanno lasciato un ricchissimo patrimonio di canti e poesie, e annota testualmente la presenza di Peppi d‘Arba, cattolicese, che altri non è se non Pasquale Alba, poeta estemporaneo effettivamente originario di Cattolica Eraclea, autore della famosa “Poviri surfarara sfurtunati”, i cui primi due versi Di Giovanni inserisce nel sonetto di Voci del feudo “Lu cantu di li surfari”[6].    Nel II e III atto, poi, c’è un chiaro riferimento all’emigrazione in America: è una notizia importante e da essa abbiamo preso spunto per il I capitolo.
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   “ Li cchiù arraggiati li fimmini sunnu!” – esclama donna Crocifissa nell’atto I.   Il ruolo delle donne dei minatori, zolfatare spesso esse stesse come abbiamo visto, non è mai stato secondario. In Paese gli uomini le hanno sempre rispettate, riconoscendo loro una funzione amministrativa da vere economiste (della miseria). Furono proprio le donne, per esempio, che nel grandioso sciopero del 1953 infusero coraggio e determinazione nei loro congiunti, che occuparono le miniere per quarantacinque giorni, e giravano le vie per tenere desta l’attenzione sulla vertenza[7].   Tornando al locale Fascio dei lavoratori, Alessio Di Giovanni chiama il sindaco dell’epoca Alfonso Tirrana e introduce l’episodio della giumenta, affermando che era un fatto realmente accaduto, in un tempo successivo, a suo cognato, grosso esponente del partito della Pecora[8].    E’ ovvio che Tirrana  è cognome inventato, ma esso fa rima con Martorana don Francesco, che resse le sorti della cittadina della Valplatani dal 1891 al 1894; mentre dal 1896 al 1902 fu sindaco di Cianciana don Alfonso Montuoro, in qualche modo imparentato con la famiglia Di Giovanni. Anche in questo caso potrebbe essere avvenuta una trasfigurazione dei personaggi per renderli meno riconoscibili. Don Alfonso, tutto immerso nell’atmosfera dei festeggiamenti del suo matrimonio, sembra per nulla turbato (cosa che invece capita alla suocera, che constata preoccupata: “Ed ora si smovinu macari li surfarara”) dal suono della brogna e dall’arrivo in paese dei fascianti bivonesi, stefanesi e alessandrini: solo un po’ di pallore e un po’ di nervosismo: “Pinzati di viddani! Testi cotti a lu suli!”. Lo sconvolge l’uccisione del suo quadrupede, chiaro avvertimento di stampo mafioso, e non la sorte dei proletari, che dopo secoli di sottomissione stavano rialzando la testa.  Eppure proprio lui, divenuto benestante grazie ad uno zio prete, proprio lui, che aveva provato la gavetta e le toppe nel culo, avrebbe, meglio di ogni altro, dovuto capire (successe la stessa cosa a Crispi) le esigenze dei fascianti ciancianesi, che da lì a poco (aprile → ottobre 1893) si sarebbero allineati alle direttive del Congresso minerario di Grotte (12 ottobre 1893)  che chiedevano l’istituzione di magazzini generali, la demanialità del sottosuolo o, in subordine, la riduzione percentuale dell’estaglio, la riduzione dell’imposta fondiaria, l’apertura di banche di credito minerario, salari più remunerativi per gli operai e, addirittura, la sostituzione del soccorso morto con un salario da versare agli infelici carusi, la cui età per scendere in miniera doveva essere elevata a quattordici anni.  Rivendicazioni incomprensibili agli occhi dei notabili del posto (Don Alfonso: “Iddi vonnu succursu francu, santu francu, guardatina franca, lu salariu crisciutu…”!), ma, invero,  alquanto blande, ponderate e moderne e tali da indurre alcuni piccoli produttori di zolfaia ad aderire al movimento e il Sonnino a tentare di farle recepire in una legge dello Stato.  Forse Di Giovanni voleva denunciare, accanto all’azione dei falsi socialisti, anche l’ingordigia e l’insensibilità del ceto sociale cui apparteneva per nascita e per censo, deprecando le tristi condizioni di vita del popolo, che, tuttavia, peccava nel volersi appropriare di qualcosa che non gli era mai appartenuta e andava a ledere dei privilegi consolidati. E questo, per lui, era francamente troppo. Era giusto che i proletari stessero economicamente meglio, ma niente colpi di testa, niente violenze.    La frase della Alaimo “e ora si smovinu macari li surfarara” denota quanto il DG fosse informato sugli avvenimenti degli anni presi a narrare. Il Congresso minerario siciliano di Grotte s’era mosso sulle stesse posizioni del Congresso contadino di Corleone (30-31 luglio 1893).     Tutti sappiamo come si concluse la vicenda fasciante in Sicilia, grazie al siciliano Crispi.***   Per quanto riguarda altri temi, quali la famiglia,la passione amorosa, lo sfruttamento, il dialetto e la parlata gergale, la solidarietà tra poveri, la presunzione dei ricchi ed altri, per i quali “Gabrieli, lu carusu” si rivela una miniera senza fondo, rimandiamo a studi settoriali e segnatamente al poderoso saggio del prof. Vito Titone, Contare le parole, Vittorietti Editore, Palermo 1984.   A noi è bastato, per il momento, prendere spunto da questo grandioso affresco storico per riportare alcuni tasselli al loro posto, fare un po‘ di chiarezza e rimarcare, ove ce ne fosse stato bisogno, alcuni concetti o realtà così superbamente descritti in quest’opera teatrale digiovannea, che, bisogna convenire, non è di facile rappresentazione – e di ciò si era accorto in effetti lo stesso Autore - data la grandiosità e la complicanza scenica del terzo atto. Forse, chissà, con un gioco di luci, sapientemente dosate, molte difficoltà potrebbero essere superate e il “Gabrieli” finalmente riproposto.
***   Di Giovanni coglie perfettamente nel segno allorché si riferisce alla fede. Una religione istintiva, primordiale quasi, pregna di superstizione, intrisa di fatalismo (“Pigliatilla cu Cristu ca mi teni sutta lu cippu!”), che induce alla rassegnazione (“Lu Signuri nni vosi puvireddi”), che si manifesta nelle locuzioni usuali (“Facemu la so’ vuluntà”) in bocca ai popolani che hanno piena fiducia in Dio (“A nautri nn’abbasta ca lu Signuruzzu nni duna saluti e lu pani cutiddianu”) o che lo sfidano, imprecando (“Signuri, trannu siti!”), bestemmiandolo anche senza accorgersene e mettendolo alla prova chiedendo grazie o favori in una religione di comodo, elastica. Le anime semplici lo venerano, lo implorano, gli si rivolgono devote e gli si affidano: è il vecchio Dio campagnolo cui fa riferimento anche Pirandello.Altri soggetti hanno poco di cristiano, sono miscredenti (”Iu sugnu cchiù granni di Cristu!”), non conoscono pietà, misericordia per il prossimo né la sua dignità. Sono anime esacerbate dalla fatica, dalle sofferenze, dall’ignoranza (“Nautri suli vi li chiantamu li chiova?”) e aspettano da Dio un rivolgimento (“Signuri, ‘nca pinzaticci vui almenu”, “A cu‘ tantu, a cu‘ nenti!”) standosene immobili e sconfinando nel paganesimo (“Signuri trannu, comu lu putistivu fari?”, “Cristu è lu sbirru di lu munnu!”).   Della mafia il Di Giovanni ha capito poco e ingenuamente, da “caldo cuore di poeta” con la testa tra le nuvole, non ha chiari i connotati del fenomeno e della sua consistenza, la sua influenza nefasta e l’azione deleteria, corrosiva sulla società siciliana, scambiandola per delinquenza comune, più o meno organizzata. Eppure il fuoco di fila notturno e costante, le schioppettate al portone di casa e l’episodio, vero, della giumenta  avrebbero dovuto indurlo a riflettere.   Si illuse pure che il fascismo, con l’azione repressiva del prefetto Mori, avesse estirpato la malapianta e riconsegnato l’Isola ai siciliani onesti.   La mafia era altro; non era una semplice operazione di polizia o questione d’ordine pubblico e i risultati non avrebbero tardato a manifestarsi nella loro drammaticità.   Ma questo il Di Giovanni non poté vederlo.
Il testo che segue è quello di una conferenza che ho tenuto anni fa a Licata e presentato in una radio privata del mio territorio. Esso è ora leggermente modificato
LA FAMIGLIA FELICEdi Eugenio Giannone  
   Da più parti, radio, Tv, giornali, chiacchiere, si continua a ripetere che la famiglia è in crisi e che stiamo allevando una generazione di smidollati, una gioventù fumata, che vuole tutto e subito senza dare nulla in cambio. Viviamo in una società particolare che divora tutto in breve tempo e nella quale la violenza sembra sia stata eretta a sistema di comunicazione: bulli, stupratori, ladri, assassini, figli che uccidono i genitori e viceversa.   E’ facile addossare la colpa alla nevrosi, al branco, alla famiglia in frantumi, alla società. E sicuramente è così; ma sono temi che andrebbero indagati singolarmente per giungere poi ad una sintesi. In questa sede intendiamo occuparci di famiglia, di un’istituzione, cioè, che svolge ancora un ruolo fondamentale, insostituibile nella società.   Dinanzi al suo sfaldamento, alla sua crisi viene sempre da dire Una volta la famiglia   Non è così. L’evoluzione è nell’ordine naturale delle cose ed era giusto che la famiglia fosse investita dal processo di rinnovamento.   Oggi si parla di famiglia mono o poligamica; una volta esisteva la famiglia patriarcale, ma non per questo era un modello esemplare.   E’ falso ritenere che la famiglia patriarcale non avesse problemi o che essa fosse sempre in grado di risolverli. Basti pensare alle privazioni, alle limitazioni della libertà cui sottoponeva i figli; ma è vero che nei momenti di difficoltà aumentava la coesione.   D’altra parte la parola del patriarca era legge, era lui il depositario delle tradizioni, dell’esperienza, dei trucchi del mestiere e chi si allontanava avrebbe ignorato i mezzi necessari alla sopravvivenza.   All’inizio di questi terzo millennio molte cose, grazie all’istruzione diffusa e ai media, sono cambiate, non sempre in positivo; anche il modo con cui si guarda alle regole e certi modelli, purtroppo, non sono assolutamente proponibili.    Per esempio il rapporto amicale tra padre (madre) e figlio.   L’amicizia tra padre e figlio presuppone un rapporto paritario tra persone appartenenti a generazioni diverse. Il risultato è una confusione dei ruoli, un rapporto squilibrato, sfasato.   Il padre, gareggiando in gioventù, cerca l’amicizia di una persona immatura, il figlio di una persona inadatta, alla quale non confiderà mai tutto.   La democrazia familiare non ha raggiunto l’obiettivo per una generazione migliore, più matura e  responsabile; ha prodotto solo confusione e lassismo.   Di questa situazione i ragazzi non hanno colpa.   Essi sono semplicemente quello che noi abbiamo voluto fossero. Sono i figli del nostro egoismo perché abbiamo voluto realizzarci attraverso i nostri figli e li abbiamo cresciuto deresponsabilizzandoli.   Perché un giovane dovrebbe cercare un lavoro, crearsi una famiglia, compiere sacrifici se diamo loro tutto? Una volta non era così. Subito dopo il soldato ci si sposava per avere più libertà, per essere indipendenti, per avere una famiglia tutta nostra e dettare noi le regole.   Ma non sono cambiati i ragazzi, sono cambiati i tempi: noi siamo figli della televisione, i nostri giovani di internet.    Si torni a parlare di regole, si smetta col permessivismo che serve solo a tacitare le nostre mancanze genitoriali, le nostre assenze; smettiamola di essere i sindacalisti, sempre e comunque, dei nostri pargoli, perché rischiamo di ammazzare “la muglieri a vasati”.   Se è necessario bisogna ripristinare lo scappellotto, il ceffone. Attenzione! Parlo di azioni virtuali, simboliche; non mi riferisco allo sfogo violento di un adulto  fuori di testa che scarica la sua rabbia sui minori o sui più deboli. Ci devono essere sempre baci, carezze, ma le mancanze devono essere sottolineate e punite impedendo, per es., l’uso del motorino o di rientrare tardi. Soprattutto bisogna ricercare il dialogo, non escludere i figli dalle decisioni, ascoltare le loro opinioni, farli sentire importanti, dare loro spazio.   Dato 100 lo spazio in una famiglia, è chiaro che all’origine esso risulterà  diviso tra marito e moglie; crescendo i figli, le proporzioni vanno modificate e lo spazio redistribuito; diversamente i nostri “bambini” ci accuseranno di essere insensibili, autoritari e lo cercheranno fuori.   Dobbiamo convincerci che i nostri figli devono vivere la loro vita, devono poter sbagliare da soli e realizzarsi come persone, come individui irripetibili; ma dobbiamo vigilare. Se non dovessimo stare attenti a queste cose, aumenterebbero gli urti, le tensioni, i disagi, le incomprensioni e i nostri figli assumerebbero comportamenti a rischio o imboccherebbero strade pericolose. La famiglia perderebbe la sua unità e aumenterebbero i problemi.   E stiano attenti soprattutto i padri. E’ inutile nasconderci dietro un dito, diciamolo francamente: i padri non crescono i figli, li vedono crescere. Se c’è un estraneo in famiglia, questo è proprio il padre; quindi sia più presente; non sia sul posto solo quando deve vietare o dare 10 euro al rampollo.   Cosa devono fare i genitori? Come devono comportarsi? Nessuno ci ha insegnato a farlo; basta semplicemente essere genitori e porsi come modelli credibili, non predicare bene e razzolare male perché perderemmo la stima dei nostri figli che ai nostri giudizi tengono tanto.Quindi assumere un atteggiamento comprensivo, discreto, non invadente ma attento, esigere il rispetto delle regole, ascoltare le ragioni dei ragazzi, che sanno bene quali sono i valori che contano – anche se talvolta fa comodo ignorarli – e ci guardano per giudicarci. Ecco: imparare ad ascoltarli, perché non sappiamo farlo!   Spegniamo il televisore, compriamo loro un pantalone in meno e stiamo mezz’ora a chiacchierare in più; collaboriamo con i docenti, con la parrocchia, con le altre agenzie educative per una loro crescita serena, ricca, armoniosa.   I figli, pezzi di cuore, i giovani sono il patrimonio che dobbiamo salvaguardare gelosamente perché è a loro che affideremo la guida della società.      L’attuale è una generazione fragile, facile agli entusiasmi, ma altrettanto incline agli abbattimenti, disillusa dalla politica che sembra averle rubato il futuro; una generazione che accetta il rischio e lo vive con eccitazione, come sfida. Sembra apatica, asociale, non curarsi della salute; sembra.   Non tutti sembrano allo stesso modo e sono molti i giovani impegnati nel sociale, nel volontariato. I ragazzi hanno una loro cultura che è figlia del loro tempo, anche se sovente è in contrapposizione a quella della nostra generazione. Non sempre siamo in grado di capire, ma dobbiamo accettarla.    Sta alla famiglia far capire che si può crescere bene assieme; sta alla famiglia che sa comunicare, favorire la formazione dell’individuo trasmettendogli il suo ricco patrimonio di esperienze e di cultura, senza imporlo come immutabile, impedendo i rinnovamenti, le trasformazioni che l’esuberanza giovanile e i tempi mutati impongono. Sta ai genitori fare crescere i figli in un clima di serena comprensione e fiducia reciproca, offrendo sani modelli d’identificazione e facendoli sentire importanti, al centro dell’attenzione. Se i genitori sono infelici assieme, per quanti sforzi possano compiere per mascherare la loro insoddisfazione reciproca, questa si proietterà fatalmente sui figli; non ci potrà essere armonia e la famiglia non apparirà più il nido, il porto sicuro in cui ripararsi, in cui comporre le proprie ansie e ricevere consolazione per gli insuccessi e solidarietà in cui stemperare fragilità e debolezza.   I genitori siano, quindi, punto di riferimento costante per i figli, diano calore, benessere psicofisico, senso della dignità e del valore di ciascuno; i genitori si aprano al dialogo con i figli, prestino attenzione ai loro piccoli-grandi problemi, si preoccupino della loro istruzione e della loro giornata, dello sviluppo dei loro talenti; li aiutino, li consiglino, li sostengano nella costruzione del loro futuro; li circondino d’affetto; offrano una situazione socio-affettiva stabile e non colpevolizzino gli errori in questa loro avventura per il mondo.   Solo così potremo affermare che la nostra famiglia è felice, armoniosa, unita.  Famiglia felice è quella in cui ogni membro dimostra considerazione per ciò che di unico e irripetibile c’è in ogni componente; famiglia felice non è quella in cui non succede mai nulla di brutto, ma quella in cui la causa del brutto non viene colpevolizzata ma aiutata a capire e a risolvere i suoi sbagli; quella in cui i successi o gli insuccessi di ognuno trovano i vari membri pronti a far quadrato.  (Non ricordo i testi cui ho attinto, al di là dell’esperienza e dell’osservazione diretta. Di ciò mi scuso con gli autori e i miei sparuti lettori. e. giannone)

 [1] A. Di Giovanni, Come andò che divenni drammaturgo, in Teatro siciliano, Catania 1932, pag. XLI  [2] Ivi.  [3] Cfr. E. Giannone, Zolfara, inferno dei vivi, Palermo 1996. [4] Cfr. E. Giannone, Zolfara cit; e V. Savorini, Condizioni economiche e morali dei lavoratori nelle miniere di  zolfo, Girgenti 1881 (ristampa anastatica del 1993).  [5] Cfr. E. Giannone, Il Fascio dei lavoratori di Cianciana (1893-94), Cianciana 1997.  [6] P. Alba, L’omu svinturatu (a cura di E. Giannone) Cianciana 1977.         [7] Cfr. E. e M. Giannone, Non si passa, Agrigento-Palermo 2003[8] Sugli stessi partiti, ma con ruoli erroneamente invertiti e più segnatamente popolari, cfr. N. Camizzi, La Pecora e lu Crastu di Cianciana (a cura di S. Collura), Cianciana 1990.

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