Bologna, Locomotiv Club.
S’inizia a sentire l’arrivo del freddo in questo novembre bolognese: la bici comincia a essere un mezzo di locomozione da utilizzare solo se ben vestiti. E sempre ben vestiti conviene entrare al Locomotiv, visto che sul palco c’è un gruppo come gli Iceage.
Questa volta il locale non spacca il secondo, la sua puntualità viene scossa dalla poca affluenza, forse dettata dal fatto che già l’anno scorso la band danese ha gelato per due volte le strade dell’Emilia Romagna. Aspetto fuori una mezz’ora: il tempo di incontrarmi con qualche amico e scambiare un paio di opinioni sull’evento che inizia il gruppo di apertura, i Modotti.
Quasi mai avevo visto il palco del Locomotiv così spoglio: nessun oggetto decorativo, presenzia solo lo stretto necessario, perfetto arredo se si vuole abbassare la temperatura invece che alzarla. Altra cosa un po’ spoglia, ma non così positiva, la stanza semivuota, lasciata così dal pubblico che non arriva. Si potrebbe stilare una lunga lista di gruppi, oltre alla omonima fotografa e attrice italiana, che forse hanno influenzato i Modotti: a me vengono in mente le chitarre degli At The Drive-In e alcuni suoni dei Fugazi, qualcuno pensa alla voce degli Altro, resta il fatto che questa giovane band crea un – perdonate l’ossimoro – noise melodico con qualche parvenza screamo, tralasciando l’hardcore. Nonostante alcuni brevi problemi tecnici, il live scorre liscio, le canzoni ripercorrono un po’ vie già sentite ma sono ben fatte. L’ultima è stata finita qualche giorno prima e si percepiscono infatti una sua non avvenuta sedimentazione e una certa qual crudezza, ma è proprio in questi casi che emerge anche la spontaneità della performance.
A proposito di spontaneità, c’è disaccordo fra tutti su quanta ne possiedano gli Iceage. Appena salgono sul palco mi sembra di rivedere i fotogrammi di “Control”. Il concetto di vintage, del resto, raggiunge stasera la sua massima espressione nel quartetto, che – ancora non ho capito se ironicamente o meno – rievoca i grandi padri del post-punk. Di sicuro esiste un dialogo con i Joy Division: il cantante Elias Bender Rønnenfelt sembra la fusione fra Ian Curtis e Michael Pitt nel remake di “Funny Games”, indossa pantaloni sopra l’ombelico, camicia e per tutto il concerto si tiene addosso un lungo giaccone fay rigorosamente beige. Il resto del gruppo non è da meno: jeans a sigaretta rubati al nonno e camicie anni ’80 (non quelle con le palme). Anche il sound richiama il primo dark inglese: la voce è profonda, le chitarre sono spigolose, ma il basso viene smussato e reso più veritiero e la batteria ricerca ritmi originali, molto veloci e a tratti meccanici. Il palco viene marcato soprattutto dai passi pesanti del cantante, che poco spazio lascia alla band, sbraitando nel microfono e seguendo orme post-hardcore. Il suo sguardo è nero quanto la sua voce, l’espressione è sofferta, sembra quasi arrabbiato. Molti sono i movimenti (teatrali?) che lascia alle braccia, alla testa e al busto. Personalmente mi aspettavo da parte sua una maggiore interazione col pubblico, ma a quanto pare preferisce rifugiarsi dietro la quarta parete. Gli Iceage suonano quasi tutto il nuovo album You’re Nothing (Escho/Matador, 2013): mai una frase, un ringraziamento, una presentazione, solo il secco nome del brano fa da intervallo tra un’esecuzione e l’altra. A fine concerto Rønnenfelt lascia cadere il microfono e sfonda quella parete che finora non aveva mai sfiorato, scomparendo fra il pubblico.
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