“Tearing out the weeds to remember what was there”. Ecco, in una frase, cosa devo fare per riportare alla memoria un concerto degli Idaho del 2008 aperto proprio da questa canzone. Una malinconia stanca accompagna docilmente il dispiegarsi di queste note spoglie, questo crollo senza tonfo, nudo, lento e costante, che accompagna le ultime ore del giorno.
Esponenti di spicco del sadcore, gli Idaho aprono questo brano un gracilio inziale alla Xiu Xiu a cui segue poi lo stagliarsi della densa melassa di catarsi attraverso la rivelazione semplice e poetica della propria disperazione, accompagnata da percussioni sfiancate che non rinunciano a imprimersi sullo sfondo di distorsioni abuliche e smarrite, s’impone ai sensi con il cantanto onirico e abbandonato ai propri spettri di solitudine di Jeff Martin, la stessa che è entrata senza macchia sotto pelle nello spazio d’un ricordo musicante.
I californiani Idaho non godono del seguito che meriterebbero per oltre vent’anni di musica crepuscolare e confessioni sul ciglio dell’abisso. Questa litania sospesa tra cielo e terra (e si deve scavare), tanto ruvida e “loner” da echeggiare le più ruvide atmosfere di Neil Young, con la classe nella testimonianza della propria malinconia degli American Music Club e al contempo tanto intima e dalla pelle sottile da rimandare naturalmente ai Red House Painters, è tratta da quello che è per il sottoscritto il loro album migliore, “Year After Year”, del 1992.
Gli Idaho sono un gruppo che non necessita alcuna chiusura ad effetto. Smarritevi nella loro anemia musicale, che più che creare suggestioni le toglie e muovo verso se stesso chi sa fermarsi un poco.
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