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Idea, rottamiamo la flessibilità (di Massimo Riva)

Creato il 02 agosto 2014 da Tafanus

Massimo-rivaBasta, per favore, con questa disputa sulla "flessibilità". Già la parola da sola suona ambigua ed equivoca perché si presta alle più contrastanti interpretazioni. Ma - ancor peggio - nell'attuale fase economica risulta fuorviante perché ha immiserito la politica europea riducendola a un'irritante "querelle" fra miopi esegeti dei trattati dell'Unione. Basta, insomma, perché mentre a Bruxelles si insiste nel discettare sulle frazioni di punto percentuale che sarebbero ammissibili nella gestione dei conti nazionali senza violare le sacre scritture, la realtà dell'economia ha appena confermato quanto si sia ancora lontani dalla tanto sperata porta d'uscita da una crisi iniziata nell'estate di sette anni fa.
Quelle prime luci di ripresa, che avevano ringalluzzito i predicatori dell'austerità quale terapia unica e sovrana per riportare il sole sul desolato panorama produttivo continentale, si sono di nuovo affievolite. Perfino la grande Germania - lo ammette a denti stretti anche l'occhiutissima Bundesbank - rischia di veder apparire sul suo orizzonte il fantasma della stagnazione. L'inconfessata presunzione tedesca di poter perseguire la crescita in un solo paese mostra così inesorabilmente la corda. E il Fondo monetario certifica questa svolta in negativo con le sue aggiornate stime di rallentamento globale della crescita. Dalle quali emerge che la frenata tedesca è causa ma anche effetto della caduta complessiva a livello mondiale. Con l'aggravante per l'Europa di una minaccia deflazionistica ormai palpabile che spegne consumi e investimenti ovvero soffoca i due principali fattori di stimolo all'economia.
La pesante caduta prima finanziaria e poi economica, manifestatasi fra il 2007 e il 2008, si è ormai rivelata tutt'altro che domabile con le medicine meramente contabili che l'Europa si infligge da anni. Eppure ancora oggi ci tocca ascoltare da Bruxelles consunte litanie del tipo "bisogna stare ai patti" ovvero "ciascuno faccia la sua parte". Tutte formulette che nascono dentro l'accettazione, intellettualmente e politicamente supina, di una visione dell'Europa dominata da un'ideologia burocratico-contabile. Il cui limite storico esiziale è quello di attestarsi su un'immobile e perciò ottusa interpretazione dei vincoli europei come fossero le tavole di una legge superiore al tempo e perfino alla realtà dei fatti.
Nel secolo scorso, in dottrina Keynes e nella pratica Roosevelt, hanno indicato la strada per il superamento di questa visione asfittica. Non si tratta di ignorare la pericolosità degli squilibri finanziari da disavanzi e debiti eccessivi, ma di mettere in discussione la terapia secondo la quale si esce da queste strettoie soltanto a colpi di austerità contabile. Franklin D. Roosevelt fu eletto presidente degli Usa nel 1932, tre anni dopo il "big crash" di Wall Street che provocò una crisi non così dissimile dall'attuale, e già nel 1933 mise in campo un gigantesco piano di investimenti pubblici che consentì all'America di ritrovare il cammino della crescita trascinandosi dietro una quantità di capitali privati. Ma oggi in Europa, a sette anni dall'inizio della crisi, di simili progetti non si scorge neppure l'ombra e su tutto continua a dominare la paranoia storicamente reazionaria di chi non sa o non vuole guardare oltre la tragica esperienza di Weimar.
E qui siamo ad un punto cruciale. La gestione dell'Europa secondo il canone prevalente delle identità nazionali ha finora mortificato quel sale indispensabile alla vitalità della democrazia che è dato dalla battaglia fra concezioni politiche diverse o addirittura fra loro opposte. Nel parlamento di Strasburgo ci sono adesso i primi segnali che stiano riprendendo corpo e peso i partiti politici ma in chiave finalmente sovranazionale. Bene: è ora e tempo che i socialisti europei, a cominciare da quelli tedeschi, ritrovino il coraggio delle proprie idee in tema di crescita economica e di sviluppo sociale. La rottamazione della parola flessibilità sarà, in fondo, solo un primo passo.
(di Massimo Riva - l'Espresso)

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