Talvolta resto sorpreso dalle somiglianze tra avvenimenti storici sicuramente lontani nel tempo ed apparentemente lontani nello spazio senza ricordarmi che la storia è un continuo raffinarsi delle esperienze passate così come la scienza è una progressione che deve il proprio sviluppo a tutti quegli “Eureka!” che si sono susseguiti nei secoli da un angolo all’altro del mondo, come una eco che si perpetua, in un divenire ove fior di filosofi si sono sperticati a ricostruirne i modi ed i sistemi senza tuttavia, forse, trovare il giusto ruolo per l’intuizione, ovvero quell’attimo in cui tutte le particelle attive del cervello umano s’incontrano secondo giusta angolazione, velocità e direzione, tanto da produrre una scoperta. Torna così prepotente il senso dell’esperienza e con esso quello della consapevolezza che di pari passo cresce, si sviluppa, progredisce, si evolve secondo legami spesso e volentieri indiretti e che sembrano saltare in apparenza lo scorrere del tempo, per poi riproporsi, con vesti nuove, affinché il principio, la tesi, possa adattarsi ai nuovi usi e costumi. La storia lo ammetto, richiederebbe un maggior rispetto ma in periodi torbidi come questo mi resta difficile, quasi impossibile non assimilare o, almeno, trovare forse un po' fantasiose similitudini tra quanto già stato e questa sorta di incipiente neo-medioevo.
Era il 27 gennaio del 1512 quando in Spagna, Ferdinando II d’Aragona promulgò le Leggi di Burgos (Leyes de Burgos), il cui scopo era quello di regolamentare i rapporti con i popoli nativi americani, propri delle terre alla cui colonizzazione aveva dato avvio Colombo. Erano appena passati venti anni dal quel fatidico 1492 che già, nonostante allora il tempo avesse pause ben più lunghe di oggi, si era fatta imperiosa la necessità di regolamentare ulteriormente quanto stava accadendo. In poche parole l’arrivo devastatore dei primi conquistadores aveva dopo solo un ventennio già posto i principi che avrebbero portato all’annientamento od alla riduzione in schiavitù, della maggior parte dei cosiddetti “indios”. Ebbene, l’inizio di questa triste epopea che ampiamente manifestava la necessità di nuove risorse da parte di governi al tempo già asfittici ed in rovina, aveva un punto debolissimo nell’aspetto relativo al compenso di coloro che per i più diversi motivi, anche se quasi tutti ascrivibili al volume dei misfatti e non della scienza, decidevano di prendere il mare verso l’ignoto, spesso preferendolo a lunghi soggiorni nelle patrie galere o, ancor peggio, al penzolar da qualche corda. I colpi di spugna per dovere di stato non erano certo cosa nuova, tanto più se il risorto nelle grazie reali, poteva permettere al proprio anfitrione di ricavar guadagno e prosperità. Non era lavoro semplice e fine, da farsi con strumenti scientifici, carte geografiche e scandagli, anzi, quella del mare era solo la prima fatica. Ciò che li attendeva a terra non era una passeggiata. Climi tropicali, malattie sconosciute, cibi completamente diversi, animali e popoli non certo felici di vedersi arrivare qualcuno che di punto in bianco ti azzera tradizione, cultura, religione e assetto sociale per non parlar dei mezzi utilizzati nell’intento. Come da sempre succedeva chi nulla aveva, nulla avrebbe avuto, ma, anche oltreoceano v’era chi qualcosa, in termini di beni o di cariche sociali aveva di che rimetterci. Lontani ancora i tempi in cui avremo iniziato a sentir parlare di dignità.
Orbene la regola principale d’ingaggio, diremmo oggi, era quella sottoposta alla encomienda. Era, l’encomienda, una usanza che si perdeva nel medioevo, secondo la quale a chi rendeva un servigio, andava una ricompensa, che poteva essere in denaro, in beni, nell’usufrutto di terreni, ivi compresi gli abitanti che vi si trovavano per i lavori relativi alla loro manutenzione e coltivazione. E siccome di denari non ve n’erano nelle casse reali, altrimenti forse certi viaggi sarebbero stati fatti in altra epoca e con altri intendimenti, l’encomienda veniva rispettata dando “in gestione” parte dei territori occupati, nominando commendatori su commendatori i quali, dovevano comunque provvedere ad una serie di incombenze, oltre che, ovviamente, a rifornire di prodotti e valori i forzieri della madrepatria. Le incombenze cui tali governatori dovevano, in loco, ottemperare, erano semplici e chiare: colonizzare e cristianizzare. Ovvero calpestare la storia dei popoli ed una volta fatta tabula rasa, renderli fedeli servi del nuovo padrone ed adepti del nuovo Dio. La catena delle procedure messe in atto era altrettanto elementare, in virtù anche del fatto che i conquistadores non erano certo scelti per la loro scienza né per la loro coscienza, anzi, una certa indole predatrice costituiva di norma caratteristica preferenziale. Pur reputando, in particolare gli spagnoli, gli Indios come esseri umani, a ciò si limitava il riconoscimento della dignità. Poco più che bambini, asserivano i più indulgenti, che cercavano di attrarli con le famose perline e gli specchietti (la cui produzione avrebbe invaso Americhe e Africa nei secoli a venire), il cui mancato gradimento avrebbe poi dato via immediatamente a metodi persuasivi ben più convincenti quanto violenti e spicci. Il continuo affluire poi dal vecchio continente di schiere di missionari e masse turbolente di avventurieri, rese quei territori per i nativi, un’anticamera dell’inferno.
La ricorrenza da cui siamo partiti fu quella dell’emanazione delle Leggi di Burgos che tentarono di dare un primo freno alla scelleratezza ed agli abusi di cui si macchiarono i primi conquistadores anche se, in realtà, tali provvedimenti si rivelarono dei palliativi in quanto, pur riconoscendo che gli Indios erano liberi e non andavano schiavizzati, restava l’obbligo, con le buone o con le cattive, di cristianizzarli (a tal proposito leggevano loro il “Requierimento”, ovvero l’ingiunzione a divenire cristiani, pena la prigione), cosicché nella pratica niente cambiò. Fu dopo altri vent’anni, nel 1534, che vennero promulgate le “leggi nuove” (Leyes Nuevas), in virtù anche dell’intervento energico del domenicano Bartolomeo de Las Casas, leggi attraverso le quali i privilegi dell’encomienda vennero in buona parte aboliti. Tra l’altro venne abolita l’ereditarietà prevista nella encomiendatura e ciò, pur non generando un diretto beneficio ai nativi, creò le prime rivolte tra i colonizzatori tanto che, per non veder vanificato tutto lo sforzo dell’espansione, tale capitolo di legge venne ritrattato da Carlo V, dando così origine alla “disputa di Valladolid” ed allo scontro teologico e giuridico del 1550-51. La disputa di fatto si risolse con un nulla di fatto in termini pratici, anche se oramai il diritto alla colonizzazione ed alla schiavizzazione erano stati pesantemente messi in dubbio, tanto che nei decenni successivi, lentamente, la sofferenza di questi popoli vide il nascere di sempre più frequenti ribellioni che avrebbero portato prima ad una integrazione su basi più civili delle razze e, successivamente, con la fine del 1700, al recupero delle indipendenze.
Il passaggio, come vorrebbe suggerire il titolo, all’Europa odierna può, ad una prima occhiata apparire arduo, ma se immaginiamo i governi di oggi che danno incarico alle banche, che poi si uniranno in banche centrali ed in BCE, di reperire ricchezza (di fatto erano le uniche a possederla oramai sin dagli anni ’80), le stesse potrebbero ben ricoprire il ruolo dei conquistadores, autorizzate dai governi a compiere “quanto necessario”. A noi non resta che il ruolo dei “nativi” inizialmente attratti da perline e specchietti, ovvero beni talmente belli e nuovi che ci devono aver fatto lo stesso effetto, tanto che ci siamo venduti corpo (ovvero il lavoro) ed anima (ovvero la coscienza civile) trovandoci poi costretti a subire le regole di questa nueva encomienda, con il rischio - e questo drammaticamente è l’unico elemento comune - di non riuscire ad ottemperare al nostro debito (quello che ci siamo creato anche con le nostre stesse mani attribuendo il valore dell’oro alle perline), subendo dunque la galera, l’esproprio, la morte tramite suicidio o più semplicemente per impossibilità alla vita, il lavoro sottopagato e talvolta non pagato .. per mancanza di fondi. E contraccambiando tutto questo non con l’immediata ribellione ma con la moneta della disaffezione al senso civile, con lo smembramento dei rapporti tra classi sociali, con l’indifferenza e quel senso disadorno di emergenza che ci ha rinchiusi nel fardello della propria impotenza ed incapacità a dire “no”. Non vedo, in questa proiezione, una grande distanza né dalla realtà odierna né da quella di allora. Le armi sono cambiate certo, non più spade ma denaro ed anche i modi, che sono divenuti più subdolamente raffinati, nel senso che oggi il diritto non lo si nega apertamente, ma, di fatto, lo si concede solo a prezzo di erodere sempre più la possibilità del riscatto, facendo la grazia dell’uovo oggi ma negando la possibilità di una gallina domani (il dovere per contro è fatica troppo spesso volontariamente esclusa). In taluni paesi anzi, volendo seguire, come ipotesi possibile d’altronde, i più suscettibili, potremmo addirittura dire che i conquistadores odierni sono stati tanto scaltri da sostituirsi alla guida dei governi stessi (vedi Grecia ed Italia), contro un unico focolaio di rivolta, di una comunità “per fortuna” isolata dai mari ed incapace dunque di contaminare (Islanda). Acclarato dunque che i nuovi conquistadores hanno certo fatto tesoro (ironico no?) dell’esperienza dei loro avventati ed improvvisati predecessori, mal non sarebbe che anche i nativi, quanto meno per par condicio, facessero virtù di quanto subìto dai loro predecessori. Per i governi nulla è cambiato quanto ad indigenza, se non il particolare (quasi insignificante forse?) che prima erano tali per discendenza, oggi per democratica elezione. E ancora una volta … Nihil novum sub sole.