Molti anni dopo
Era martedì.
Piovigginava.
Francisco camminava sul marciapiede destro.
Camminava spingendo avanti la pancia gonfia, con la mano sinistra in una tasca sfondata, la destra che stringeva in pugno la valigetta marrone, e lo sguardo fisso avanti, a ignorare le occhiate.
Occhiate di paura e compassione.
Paura di chi non lo conosceva e si scostava bruscamente, quasi che la polvere, la malinconia e il puzzo di povertà fossero infettivi. Compassione di chi lo conosceva bene e si era già lasciato andare a portargli ogni tanto un piatto di minestra o due panini o qualche bottiglia di birra.
Altri, più acuti e intelligenti, gli lanciavano occhiate d’invidia.
Francisco non aveva nessuno a cui rendere conto: nessuna moglie premurosa che indagava sulle sue assenze serali o sulle levatacce notturne; nessun figlio affezionato che chiedeva soldi; nessun cane da nutrire e portare a spasso raccogliendone gli escrementi; soprattutto, nessun padrone che controllasse l’orario di entrata e di uscita e i timbri sul cartellino.
Francisco era uno scrittore.
Entrava nella casa a un solo piano, con le assi di legno chiaro ormai a vista, la vernice rossa scrostata e le imposte che gemevano sotto il peso dell’età. Il portico aveva bisogno di essere spazzato, la sedia sotto il portico di essere impagliata, le finestre di essere pulite. Uno dei vetri, quello della cucina, avrebbe dovuto essere sostituito, ma finché il nastro adesivo reggeva Francisco avrebbe continuato a sbirciare tra una crepa e l’altra mentre friggeva il suo pane secco e lo gettava nel brodo per la cena.
Era martedì.
Come tutte le sere Francisco si sarebbe messo a letto presto. Inutile sprecare corrente elettrica. Inutile rimandare i momenti di dormiveglia che precedevano l’abbandono della notte.
Erano quelli gli istanti in cui scriveva. Steso al buio, gli occhi chiusi, scriveva. Nel buio, nel silenzio, la mente, più veloce di qualsiasi scrittura, gli concedeva di correre dietro alle sue storie. E quando una frase sembrava quella giusta, Francisco se la ripeteva fino a impararla a memoria, occhi chiusi, la mente che vacillava nel sonno e la frase ripetuta e ripetuta ancora e ancora. E poi un’altra frase, e un’altra, fino a crollare o ad alzarsi, sveglio come la mattina presto, e a scriverne.
L’angolo dove si chinava, aggiustandosi gli occhiali tenuti insieme dallo scotch, era l’unico ordinato. Fogli bianchi impilati a sinistra, fogli scritti, cancellati, rifatti, riempiti o mezzi vuoti impilati a destra. Storie abbandonate. Storie che avevano uno svolgimento e spesso una fine, ma non avevano l’inizio. Non quello che lui voleva. L’inizio, pensava Francisco, doveva essere perfetto, come le storie che lui aveva in mente.
“Dover decidere della vita di un uomo è diabolico…”
“Il paese di Montorsello conserva ancora…”
“Elias lo aveva assicurato, che sarebbe stata una buona cura…”
“È il 26 agosto dell’anno 1416, l’anno cinquantaseiesimo della mia vita…”
Dietro a ogni frase, una storia già sognata, tracciata punto per punto e interrotta subito dopo quelle poche righe, insoddisfatte loro stesse della loro inadeguatezza.
Era martedì. La pioggia si allontanava, Francisco aveva cenato e si era seduto sul portico, poggiandosi piano sulla sedia sfondata. Era abbastanza buio da poter vedere le stelle. Era abbastanza silenzio da pensare che qualche volta avevano ragione quelli che lo invidiavano. Chi altri avrebbe goduto, come lui, di quella sera, di quel silenzio, di quel tepore umido succeduto alla pioggia, di quell’odore di terra che arrivava a ondate, di quell’abbandono totale al niente?
Francisco sospirò, pensando all’unica cosa che gli mancava. A quell’inizio di storia che non aveva ancora sognato. A quell’invidia totale e assoluta che gli si distillava nel cuore in quel momento, che traboccava lenta negli occhi, che gli toglieva un poco il respiro quando non riusciva a dimentica che esisteva, da qualche parte nel mondo, chi aveva già trovato la strada per arrivare a scrivere ciò che lui avrebbe voluto scrivere.
Qualcuno che invecchiava, felice di una storia iniziata cosi bene da dovere essere portata a termine. Qualcuno che ora soffriva, invecchiando malato, e che Francisco avrebbe voluto soffocare con un lacero cuscino di piume, o lasciar vivere, per vederlo soffrire ancora di più, a scontare la perfezione raggiunta.
Era martedì.
Non pioveva più e, come tanti altri martedì o mercoledì o sabati o lunedì della sua vita, Francisco non si alzò subito per andare a letto. Poggiò piano la nuca alle assi scrostate, guardò il cielo di nuovo limpido, nella notte, chiuse gli occhi e rabbioso recitò piano tra sé l’incipit perfetto, che non sarebbe mai stato capace di uguagliare:
“Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendia si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio”.
