Cantare, lo sapevamo fare (un racconto)
Si, me lo ricordo bene. I vagoni presero a rallentare, poi ci fu una specie di strattone, e il treno si fermò. Sentimmo vociare i soldati, e capimmo che dovevano riparare qualche danno al locomotore.
Era il giorno di San Giovanni, era Jaņi questo lo sapevamo.
Provammo a guardare attraverso le fessure di quel legno scuro, cercammo di affacciarci da quelle finestrelle sotto il tetto del vagone. Non si vedeva anima viva, né alcuna costruzione umana.
Poi un'altra cosa che mi ricordo era un silenzio sospeso. Neppure ci guardavamo le une con le altre, per il timore di scoprire nel volto di qualcuna lo specchio di quella disumana speranza, che come una radice nata male già si attaccava allo spuntone di roccia su cui eravamo precipitati.
Restammo così per un tempo incalcolabile.
Corpi fradici di umori e sporcizia che si stropicciavano in uno spazio angusto, spiragli di luce e aria che bevevamo con la bocca spalancata. Mute.
Viaggiavamo da dieci giorni. Ce ne restavano altrettanti, ma allora non avevamo idea. Sapevamo solo di essere cadute dentro una voragine buia, non immaginavamo più un tempo, o uno spazio. Non ci consentivamo di pensare. La Lettonia era ormai lontana quanto un sogno.
Poi una serie di schianti e cigolii ruppero quella bolla inerte. Come il suono si avvicinò, capimmo.
La porta del nostro vagone si aprì con un movimento secco e improvviso. E fu la tundra siberiana, immensa e irreale, che ci apparve di fronte.
Ci colpì sulla faccia quel fascio di luce candida, che nascondeva l'orizzonte. Poi gli occhi si abituarono ad uscire dalla penombra, e le pupille restringendosi svelarono in lontananza l'infinita foresta di larici e abeti bianchi.
Saltammo giù. Molte si lasciarono cadere su quella terra umida di torbiera. Ci dettero da bere, e ci avventammo sui secchi d'acqua come disperate.
Poi il tempo si posò su quello scenario stupefacente. L'immensa pianura di paludi e boschi di conifere teneva in un piccolo pugno quel treno fermo, i soldati dallo sguardo stranito e vuoto, e noi, inermi.
Ci accoccolammo cingendo con le braccia le gonne primaverili che molte di noi portavano, al momento dell'arresto. Qualcuna aveva fatto in tempo a prendere con sé qualche vestito pesante, un maglione, un cappotto. Ma poche di noi. Non sapevamo allora, non avevamo idea. Dopo, solo dopo avremmo capito.
Intanto il sole da sopra le punte degli abeti che incorniciavano l'orizzonte ci dava ancora l'idea di un calore. Ci consegnava la percezione che era giorno di Jaņi.
Sono dieci giorni che torno qui.
Dieci giorni che non so più di te.
Aspetto sera, lascio Katrina da mia madre, e corro qui. Non so perché lo faccio. Perché vorrei prendessero anche me.
Mi affaccio dal ponte su Vienibas Gatve, e guardo sotto. La stazione di Tornakalns è deserta. Solo due soldati russi a far ronda.
Ed io sto qui. Scendo verso Arkadijas Parks e nascosto fra i tigli e le betulle osservo i binari.
Sono dieci giorni che ti hanno inghiottito in quei vagoni bestiame. Ed io non c'ero. Non ero con te.
Sì, mi dicono che è stata una fortuna, che se fossimo rimasti a casa, anziché andarcene in campagna a cercare mirtilli e frutti di bosco, avrebbero preso anche noi. Anche me e Katrina. Ma io non avrei saputo, quale fortuna augurarmi. Quale sorte scegliere.
Adesso, l'unica cosa che conta è che io non ero con te. E qui stasera fa una luce strana, come un pallido chiarore. Neppure gli alberi tengono a bada questo bianco insolente. Ed io sono un pazzo a restare qui. Solo per guardare questi binari, questa stazione grigia.
E non capisco cos'è questa nenia che sento lontana, dalle case oltre il parco, una specie di prolungato rintocco. Eppure sembra un canto.
Come potrei dimenticare. Daina teneva la testa bassa, seduta sul principio della massicciata del binario, si guardava i piedi. Fu lei che intonò lievemente l'inizio di Jaņu Dziesma, la canzone di San Giovanni. Erano dieci giorni che viaggiavamo come bestie. Ma quella sera ci avevano fatto uscire dai vagoni. Ed era Jaņi, questo lo sapevamo.
Nessuna di noi si girò a guardare Daina. Non era importante guardarla. Si capiva. Una melodia, una specie di soffio di vento che ci alzò, come fili d'erba. Cominciammo a cantare tutte quante, questo lo sapevamo fare. Anna con gli occhi spalancati, aveva perso sua figlia di pochi mesi il secondo giorno di viaggio. Ruta che piangeva ogni notte. Jolanta che aveva appena undici anni. Tereze che veniva da Latgale e passava il tempo a pregare. Aiga che parlava continuamente di suo figlio, rimasto nell'altro treno con il padre. Zinaida, la più vecchia, vivemmo insieme nel villaggio di Togur per otto anni, finché morì. Solvita che masticava foglie di menta. Io, che pensavo a voi due, che speravo con tutto il cuore non vi avessero preso. E ancora centinaia di noi, di madri e figlie, da ogni vagone.
Tutte cantammo. Di fronte a noi c'era la Siberia.
Fanno un fuoco, lo vedo, è in una di quelle case oltre Arkadijas Parks. Si, ecco cos'è questa sera. Anche di Jaņi mi ero scordato.
Non ho più la percezione del tempo, dei giorni e delle ore. E' un odio sordo che mi scuote. Provo a vederti dentro quel treno e non ho idea di dove pensarti.
I due soldati di ronda stanno per ricevere il cambio. Vedo il picchetto avvicinarsi.
Ieri sera una guardia mi ha fermato all'imbocco di Jelgavas iela. Mi ha chiesto i documenti. Mi ha chiesto cosa ci facessi da queste parti. Io gli ho detto che tornavo dal lavoro, dalla tipografia che è qui vicino. Mi ha creduto. Non lo trovi buffo? Qui sospettano traditori dietro ogni angolo, e hanno creduto ad una menzogna così banale. Quasi ne sono rimasto deluso. Forse davvero speravo prendessero anche me.
Avevo voglia di prenderlo per il collo, e sputargli addosso tutto il mio rancore. Chiedergli che ci fa, figlio di questa terra, a servire questi maledetti russi.
Avrà anche lui una figlia. E una moglie. E allora? Basta questo?
Tu sei in quel treno chissà dove. Ed io non c'ero, quando ti hanno portata via. Io non c'ero.
E' mezzanotte, e finalmente una specie di miserevole ombra è calata su questa notte di San Giovanni. Ti lascio andare mio amore, torno da Katrina, torno a questa specie di vita, a questa continua paura, a questi fantasmi che mi strappano dal sonno. Poca cosa, per quello che è toccato a te. Tua figlia mi chiede, ed io non so rispondere.
Questa nenia lontana, mi accompagna via.
Non era una notte. Piuttosto un lento crepuscolo. I larici all'orizzonte si erano tinti di rosso. E palpitava di porpora quell'enorme cielo sopra di noi. Fili d'erba come cala il vento, ricademmo in silenzio, appena si spensero le ultime parole della canzone. Allora guardai Daina, i suoi capelli leggerissimi, gli occhi stretti verso un orizzonte solo suo. Allora guardai Tereze, le mani posate in grembo. Allora guardai nei loro sguardi il nostro comune destino.
Dai fossi paludosi si sentiva il lavorìo continuo dei castori. E in cima al convoglio il battere metallico dei soldati che riparavano il locomotore.
Ci fecero risalire sui vagoni. Ne saremmo scese dieci giorni dopo, a Kolpashevo, nel distretto di Tomsk, Siberia Occidentale.
Vi avrei rivisto solo sedici anni dopo.
Questo non sapevo immaginarlo.
Paolo Pantaleo