Nella puntata di Che tempo che fa di domenica 5 gennaio, Christian De Sica ha raccontato di un quadro di Francis Bacon che per qualche tempo fu di proprietà della sua famiglia: dalla descrizione che ne ha dato non ci sono dubbi sul trattarsi della tela che reca per titolo Woman emptying a bowl of water, and paralytic child on all fours (1965), appartenente al ciclo ispirato alle foto di Eadweard James Muybridge (1830-1904). Penso valga la pena di soffermarci su quanto ha detto a proposito dell’opera e del suo autore, perché offre spunto a più d’una riflessione sul degrado culturale del nostro paese, e preciso subito che scelgo la soluzione di riportarne il testo, piuttosto che allegare in video il passaggio, per risparmiarvi l’inutile sovrappiù di volgarità in mossette e ammicchi.Probabilmente è superfluo premettere che a me Christian De Sicanon piaccia affatto. È che in certi attori non v’è studio, né tecnica, né esperienza, né d’altronde se ne coglie la mancanza, perché si limitano ad essere se stessi, non importa quale sia il personaggio che sono chiamati ad interpretare, tanto più che quasi sempre si tratta di un personaggio costruito a misura, al punto che non è possibile trovare alcuna differenza tra come sono nella scena e fuori. Christian De Sica è appunto uno di questi attori, e i personaggi che ha finora interpretato sono in realtà uno solo, sempre lo stesso, anzi, più che di un personaggio, si tratta di un carattere, lo stesso che ha esibito da ospite di Fabio Fazio. Un carattere deteriore, ma è da millenni che la rappresentazione di ciò che è deplorevole ha funzione che risponde a un fine eminentemente sociale, e che continua a mantenere il suo valore anche se da alcuni decenni ha cambiato di segno: se prima era il cattivo esempio da evitare, oggi è il modello in cui ci si può riconoscere per cercare in esso ragioni, e trovarle, per accettarsi per come si è, e perfino con autocompiacimento.L’universo intellettivo ed emozionale diChristian De Sica è il cinepanettone. L’inevitabile difficoltà di confrontarsi con l’enorme figura del padre, dunque, non può risolversi che mantenendo un costante equilibrio tra l’aneddoto e lo sketch, avendo cura di non sottrarre al primo il candore del ragazzino che racconta del suo grande papà, né al secondo l’efficacia del meccanismo che produce la risata: è lavoro assai più complicato della sacerdotale cura del tempio paterno, che in fondo necessita della sola capacità di confetturare la memoria in apologo e metterci a sentinella seriosità e sussiego, ma implica lo svilimento di una pagina di storia e di cultura del paese. In sedicesimo, direi, è ciò che accade quando un’epoca si riduce ai divertenti pettegolezzi che l’hanno intessuta e che di generazione in generazione sono arrivati fino a noi. Il ruolo di testimone privilegiato ci autorizza a prendere confidenza coi grandi che ne sono stati protagonisti, invitandoci a lasciare in secondo piano la teoria della relatività per concentrare la nostra attenzione sul fatto che Einstein portasse spesso calzini spaiati.
Ma forse riesco a spiegarmi meglio venendo al «Bacon-De Sica».
«Mio padre era un collezionista perché era molto amico di Cesare Zavattini, il suo sceneggiatore, che era un grande conoscitore d’arte e quindi lo consigliava su quali quadri comprare, e gli consigliò di comprare questo quadro di Francis Bacon. Era un quadro enorme... Poco prima di morire Francis Bacon ha detto: “È il quadro mio più bello”. Io sono andato con mio padre a Londra a casa di Bacon. Era un matto, la casa era tutta sporca, piena di roba, di colori... Sai, quei matti… Però era un genio assoluto, uno dei più grandi pittori contemporanei…
Insomma, mio padre compra ’sto quadro e paga una grossa cifra, che era otto milioni di lire… Era una cosa terribile: c’era un utero che sembrava un ponte. Sopra quest’utero c’era una donna che lanciava un secchio con dell’acqua e un bambino poliomielitico che camminava su ’sto utero. ’Na cosa che quando papà l’ha portato a casa, mamma l’ha messo in uno sgabuzzino dicendo: “Che è, ’sta porcheria?”. E non sapeva che era un capolavoro, però era una roba inguardabile, in più c’era il viola...
Papà fa un film che si chiamava I girasoli, che non va tanto bene, e dice: “Questo è il quadro: dobbiamo venderlo, perché porta una sfiga terribile”, e lo vende per diciotto milioni di lire. Però, prima di venderlo, l’avevano messo nella stanzetta dove io andavo a fare i compiti…
E allora ci avevo ’sto quadro vicino, e facevo i compiti, e mi rompevo le scatole, e con la penna biro facevo così col cappuccetto, ed è partito, e pum!, gli ha fatto un buco così… Allora ho detto: “Madonna mia, adesso mio padre me mena”, e allora che ho fatto? Di dietro ci ho messo lo scotch e poi sopra ci ho fatto un fiorellino… ’Na schifezza, perché, poi, l’utero, il poliomielitico, io che ci faccio il fiorellino, che non c’entrava un cacchio… Mio padre si vende il quadro a diciotto milioni di lire, viene comprato da una signora miliardaria che lo rivende a centosessanta milioni, poi va a un’asta… Insomma, praticamente, non questo quadro, ma un altro di Bacon è stato venduto un mese fa per centosettanta milioni di euro… Gli ho detto [a mia moglie]: «Silvie’, ma te rendi conto?»...
[Qualche tempo fa]vado in una libreria e vedo un libro: l’opera omnia di Francis Bacon. Allora lo compro, vado a casa, apro, e non vedo il quadro mio? Aò, ci aveva ancora il fiorellino col buco. ’Na cosa meravigliosa… L’avevo fatto pure io!»
Al che, sinceramente divertito, Fabio Fazio chiosa: «Il “Bacon-De Sica”».
Come accade nel cinepanettone, occorre piegare i fatti in barzelletta. Per quanto scagliato con violenza, il cappuccetto di una biro riesce a forare da parte a parte una tela, per giunta indurita dal pigmento che la ricopre? Era noto in Vittorio De Sica il vizio del gioco: è verosimile che il quadro sia stato venduto perché portava sfiga? Non sapremo mai. Di fatto, Bacon non ha mai detto che il suo quadro più bello fosse quello che è stato in casa De Sica. Di fatto, anche per Christian De Sica, Bacon rimane un genio, anche se dipingeva
«schifezze» ed era un«matto»: in cosa, dunque, la genialità? Per finire, l’inscriversi da garrulo cazzaro nella storia del cinema italiano e in quella della pittura contemporanea. Una pagina televisiva orrenda, perché ben vengano gli iconoclasti, ma non si limitino ad amputare un mignolo alla statua per poi farsi ritrarre in foto accanto ad essa con un sorriso da deficiente.[No, temo di non essermi spiegato bene neppure con l’esempio offerto da Christian De Sica. Troppo incazzato per riuscire a ordinare gli argomenti, chiedo scusa.]
***Questo giocare coi personaggi famosi incrociati in gioventù per costruire storielle brillanti è inevitabilmente a rischio di infortunio. Denis mi segnala il caso della millantata conoscenza di Alfred Douglas («Sai chi è? Dorian Gray, quello che ha mandato in carcere Oscar Wilde» - 3:14-4:14), morto sei anni prima che il millantatore nascesse.