di Primula Ma Bohème. I numerosi viaggi in aereo sulla tratta Sud-Nord e ritorno, ripetitivi e sempre uguali a se stessi, “stessi orari, stesse giornate, stesso posto a sedere …” sono occasione per riportare alla superficie un passato nascosto nella coscienza o che, almeno, era tale al mondo.
Io-presente e io-profondo si uniscono senza soluzione di continuità, in una dimensione quasi atemporale.
Inizia con queste parole il “diario di un dolore” di Ivano Luppino, la storia personale di una vita legata indissolubilmente all’esperienza della sofferenza. Scriverne è stato per lui, bambino al cobalto, una sorta di seconda nascita.Libro breve: in sole 130 pagine circa è raccontata un’esistenza.“È un venticinque febbraio della mia vita e sono in compagnia del mio posto, a bordo di un aereo dell’Alitalia. Il mio giorno è stato una domenica alle ore 9 del mattino. A quel tempo i bambini venivano alla luce quasi sempre in casa, e così accadde anche per me.”
Libro molto intenso: non una successione cronologica di avvenimenti, ma l’analisi di una condizione fisica e psicologica, la convivenza di un bambino, poi adolescente, con la malattia.
Come cornice, una solida rete di relazioni familiari, amicizie e affetti importantissima per il protagonista.Si procede per flash, immagini e ‘quadri’ di vita; momenti di profonda angoscia lasciano spazio ad aneddoti di una quotidianità ‘normale’ e festosa.
“Il peso di un’infanzia persa e mai riconquistata” è bilanciato da ricordi di istanti spensierati, e giustamente per un diciottenne: festeggiare con gli amici in estate, incontrarli al bar, ascoltare i brani dei Collage, i Cugini di Campagna, i Mattia Bazar, “cuccare” sul lungomare, suonare e cantare in gruppo nel garage di un amico.Alternanza che non lascia la percezione di un brusco stacco narrativo, ma che ha il sapore del reale in cui nulla è costruito a priori, in cui le giornate si arricchiscono di intrecci, sentimenti, successi e delusioni, prove, sorrisi e lacrime, incontri e scontri: questa è la dimensione del ‘vero’ che ho gustato leggendo il testo.Da una pagina all’altra ci si sposta quindi molto nel tempo e parallelamente anche nello spazio.
San Ferdinando, Acireale, Acicatena: scorci della natura calabrese e siciliana che sembrano compensare il triste fil rouge del racconto con la luce e i colori della bellissima Italia meridionale.
Il blu del mare, il verde della terra, la vigna di famiglia a Palmi, vasti terreni coltivati a ulivi, “il piccolo borgo di Forza d’Agrò” la cui “strada di accesso” “era costituita da una lunga serie di tornanti che consentivano ai visitatori occasionali di restare senza parola, letteralmente incantati nel godere della vista sulla costa che da Capo Sant’Alessio va a Capo Alì: di fronte l’estrema punta della Calabria. E una volta su, era possibile vedere anche Taormina, un’impareggiabile cartolina naturale ricca di colori sfavillanti.”E … Roma.
Per il protagonista non la città in cui godere delle bellezze dell’arte, bensì la sede del suo calvario.
Partire per Roma significa, fin da bambino, viaggiare verso la speranza ma, al tempo stesso, incontrare la crudeltà di cure invasive, conoscere l’ ”insulto invisibile” della radioterapia.
Essere a Roma significa per lui vivere in ospedale, definito “un’appendice di casa”, guardare dalla finestra il mondo esterno e lontano.
Ecco, la vita del “bambino al cobalto” è costellata di privazioni, limitazioni: poco sport, solo brevi e sporadiche incursioni nell’ambiente del calcetto e del ciclismo amatoriale, sempre molto attento a non essere urtato, fossero anche amichevoli pacche sulla spalla o abbracci particolarmente affettuosi.“C’erano due grandi alberi di ficus ingabbiati in vasi, forse troppo piccoli, ai lati della finestra che risultava parzialmente nascosta e ciò mi consentiva, la sera, di utilizzarla come camera con vista.
Questa era stata spesso la sede dei miei pensieri.
Da lì, potevo osservare il turbinio delle auto che sfrecciavano sulla circonvallazione gianicolense che si inarcava verso Monte Verde.
Quasi ogni sera, dopo cena, quando tutti gli altri “colleghi” di sventura si ritiravano nelle stanze ( … ) quasi di nascosto, senza far rumore, spesso scalzo, abbandonavo la camera per occupare il mio palco riservato su Roma capitale.
Mi chiudevo in me, appoggiavo le braccia sul marmo della finestra, la fronte al vetro e pensavo perché tutto questo dovesse essere parte della mia vita.
La finestra riusciva a trasmettermi i rumori della vita che scorreva e tante volte avevo desiderato di uscire, liberamente, anche solo per qualche ora.
Quella finestra mi consentiva di non perdere mai il contatto con la vita degli altri, quelli che non soffrivano. Era l’unico modo per vedere, percepire l’esterno e non sentirmi recluso ospedaliero.
Ma la realtà era chiusura, impossibilità, costrizione.”
Necessaria accuratezza persino nell’abbigliamento: “le magliette e le camicie a maniche corte non rientravano nel mio guardaroba”.
Nascondere segni e proteggere il corpo: un must.Oggi? “spesso in estate non mi copro, tengo la camicia sbottonata e questo, qualche volta, permette agli altri di intravedere …”
Lo scrive verso la fine del libro definendo ‘strana’ questa scelta.
A me non pare tale: è la logica conseguenza del lavoro su se stesso fatto raccontandosi, l’esternazione simbolica di un sommerso che è uscito alla superficie liberandosi e liberandolo.I capitoli finali sono particolarmente toccanti, molto introspettivi.
È l’adulto che parla, che rivela a posteriori il desiderio spesso provato di fuggire, persino “di essere eliminato fisicamente da questa terra”, di andarsene in silenzio “senza dare fastidio”. Idea sempre immediatamente abbandonata: troppo forte il legame con la vita.
La sua forza di volontà, le circostanze e gli accadimenti favorevoli, dagli efficaci interventi medici alla visita a Lourdes, la preghiera e la fede, hanno consentito che il bambino non morisse. Lui non ha chiesto tuttavia di sopravvivere bensì di vivere, con tutta l’intensità che tale verbo racchiude.Arrivata all’ultima pagina, non mi sono sentita affranta. Coinvolta e commossa sì, ma non angosciata. Pur essendo il “diario di un dolore”, come indica il sottotitolo, questo libro non suscita pietismo o lacrime di commiserazione e non mi ha lasciato il retrogusto amaro di una tragica autobiografia. Anzi, e potrà forse apparire paradossale, leggendo ho persino sentito aleggiare sulle parole una leggera brezza di serenità.
Alla fine … la prospettiva naturale di un incontro con una “Lei”, eterea figura femminile dolce e accogliente, non sconosciuta ma sfiorata varie volte, di cui il bambino, ormai adulto, non ha paura, l’unica che pronuncerà “per la prima ed ultima volta” il suo nome.Sì, perché nel libro il nome Ivano non è mai citato. Vero che è scritto in prima persona, il che lo dà forse per scontato; tuttavia, nemmeno nei rari dialoghi è mai pronunciato.
Peraltro le pagine pullulano di riferimenti biografici e geografici reali a persone e luoghi. I personaggi sono individuabili e riconoscibili, hanno una precisa collocazione sociale, familiare e affettiva. Ebbene, per contrasto sembra che l’identità di Ivano non abbia molta importanza.Questo mi ha fatto riflettere.Forse l’autore l’ha considerato superfluo perché sottinteso, forse l’ha fatto inconsapevolmente, forse …O, forse, l’essenziale è altrove.Ad esempio, non ha ritenuto necessario entrare nei dettagli della malattia, anzi non ne parla proprio: evoca LA malattia non UNA patologia specifica. Se ne intuisce la gravità, ma non c’è alcuna insistenza morbosa o una particolare analisi scientifica. Eppure l’autore è un medico. Volto molto noto, persona conosciuta e stimata nell’ambiente, eccellente professionista. Nel racconto non ricorre alle sue competenze: compare qualche “garza” qua e là; spuntano sporadicamente “lettini”, di degenza e quello verde della sala operatoria “con la luce fredda della lampada scialitica”; fanno capolino i termini “radioterapia” e “cobaltoterapia“; sbuca un breve accenno alla sua tesi di laurea più per i rapporti professionali e affettivi che ne sono stati il supporto che per l’argomento trattato … nulla di più.Una scelta narrativa che mi ha particolarmente colpita perché lascia emergere il punto di vista del bambino, le sensazioni del dolore espresse con immediatezza, senza razionalizzazione, talora senza capirne la reale portata. Procedimento facile per uno scrittore se racconta di un altro da sé, più complesso se l’individuo è lo stesso e deve inoltre spogliarsi delle sovrastrutture culturali che separano il suo oggi di adulto medico dal suo ieri di bambino impreparato.Mi piace quindi pensare al “bambino al cobalto” come metafora del dolore, per cui ha scarsa rilevanza sapere se si tratta di Ivano o Giovanni o Cesare … , e, anche, come simbolo del profondo e ancestrale attaccamento alla vita insito in ogni uomo, dell’invito a non mollare mai, a non rassegnarsi di fronte alle prove che il Destino o il Cielo o Dio, secondo le personali convinzioni di ciascuno, ci riservano.La scrittura ha un enorme potere terapeutico per chi compone e chi legge, ne sono convinta da sempre. Questo libro me ne ha fornito l’ennesima importante conferma.
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