Mentre chinava il capo, le conchiglie che teneva appese al cappello tintinnarono. Suono familiare come il suo stesso respiro. I piedi gonfi, coperti di vesciche sanguinanti, gli urlarono che era l’ora di fermarsi. Una lunga tappa quel giorno, per fortuna quasi tutta in pianura.
Sedette su una roccia, si appoggiò al bastone. “Fratello mio nodoso”, gli disse, “anche oggi è stata dura”. Si era abituato a parlare da solo, a non sentire i dolori, le ossa rotte. Si era abituato al sole a picco, al caldo e al gelo, alla pioggia battente. Anche per tutto quel giorno aveva piovuto, dolcemente e lentamente, senza freddo e senza vento, una pioggia fine e inesorabile che gli aveva intriso il feltro del mantello. Ora la pioggia era cessata e l’aria diventava a ogni istante più fresca.
Bevve alcuni sorsi d’acqua dalla zucca. Gesti divenuti meccanici, ripetuti ininterrottamente da quando aveva preso la via Franchigena, su su fino al terribile passaggio dei Pirenei, ed al raduno di Ponte la Reina, con gli altri pellegrini insieme ai quali, poi, aveva percorso i sentieri assolati della pianura. Erano in tanti a fare lo stesso cammino, trovando riparo nei monasteri. Lui era partito in primavera, marciando tutta l’estate, e ora, in autunno, era quasi giunto alla fine del suo viaggio. Un viaggio intrapreso nell’anno di grazia 1369, per compiere il suo dovere verso Nostro Signore Gesù, per mettere alla prova la sua resistenza, e per… per qualcosa che ancora non riusciva a definire. Forse era la voce di suo padre che gli rinfacciava la sua incapacità di essere un buon fabbro. “Sii almeno un buon cristiano, parti per questo viaggio, levati dai coglioni, tanto qui non servi a nulla.”
Chi tornava indietro, parlava di una piazza immensa, affollata di gente, di una cattedrale maestosa. “Santiago è come una casa, il suo atrio può accogliere centinaia di noi. Lì Dio ci è vicino, possiamo sentire il suo alito, la sua potenza.”
Alzò lo sguardo, come richiamato da qualcosa, forse un rumore, un frullo d’ali. Sbatté le palpebre. Chiuse gli occhi e li riaprì. Lassù, dove fino a un attimo prima vedeva solo il cielo che imbruniva, gli era parso di scorgere qualcuno, affacciato a un ponte che ora non c’era più. “Non c’è perché non c’è mai stato, Jacopo. Sei stanco, hai bisogno di dormire.”
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John guardò giù dal cavalcavia dell’autostrada. Non sapeva nemmeno perché aveva fermato il camper sulla corsia d’emergenza ed era sceso senza il giubbotto fosforescente. Si aggrappò al parapetto e si sporse. Sua moglie, dall’abitacolo del camper, gridò: “What are you doing, what’s wrong?” Udì la voce di lei farsi stridula, impaurita, forse temendo un gesto folle da parte sua, un improvviso raptus suicida. Ma lui non ci pensava neppure a buttarsi.
Giù solo lattine, bottiglie di plastica, fogliacci sparsi nell’intrico di rovi. Eppure John si sentiva calamitato come se da là qualcuno lo chiamasse, come se, sotto il cavalcavia di un'autostrada spagnola, ci fosse il senso della sua vita. Proprio lì, si disse, passava l’antico sentiero dei pellegrini in marcia verso Santiago de Compostela.
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Raggomitolato nel mantello umido, Jacopo si distese sull’erba. Era solo sul sentiero ben segnato dai tanti piedi che lo avevano calpestato negli anni, solo come desiderava essere in quell’ultimo tratto che lo avvicinava alla meta. “Cammina, cammina, Jacopo, ti sei perso nei meandri del tuo cuore, ma poi ti sei ritrovato”. Forse, si disse, non era un incapace fannullone come diceva suo padre, forse, semplicemente, Dio non voleva che lui diventasse un fabbro. Magari aveva qualcos’altro in serbo per lui. Doveva dormire, perché lo attendeva un giorno importante. L’indomani si sarebbe alzato all’alba, avrebbe mangiato il suo pane, e percorso l’ultimo tratto del cammino. Con forza, con coraggio, con fiducia, come se camminasse non verso Santiago, ma verso il futuro.