Che poi lo svegliarmi presto non è nemmeno l’aspetto più traumatico della mia nuova esistenza da lavoratore subordinato.
Il vero sbalzo mentale è, appunto, l’essere subordinato. Fin dai tempi della babysitter di Caino o del bracciante a libro paga di Adamo, essere lavoratori dipendenti è sempre stato tecnicamente caratterizzato da due aspetti principali: avere un capo ed essere pagati a tempo.
Ora, sull’avere un capo o superiore gerarchico o responsabile d’area che dir si voglia, non ho molte obiezioni da fare. Non sono mai stato uno spirito troppo libero, sono impacciato quando si tratta di esercitare un potere (tranne quando arbitro), non subisco il fascino della libera professione, so inserirmi in un contesto che non mi vede in posizione apicale, infine non reclamo gloria sia per mancanza di ambizione sia perchè scanso volentieri le responsabilità. La lezione di Kevin Spacey in American Beauty è ben salda nella mia mente: la sua frase, “i want a job with the least amount of responsibility“, pronunziato davanti allo stupito responsabile del Macdonald che analizza la domanda di lavoro di un ex dirigente d’azienda che all’improvviso vuole solo friggere patatine, rimane una illuminazione sempre attuale.
Rimane però l’altro aspetto dell’essere lavoratore subordinato, ovvero l’essere pagato a tempo. Ecco là ci siamo meno. Quale orrore e quale errore….come si può calcolare l’opera umana valutandola in ore settimanali? Come si può svalutarla, oppure ingigantirla, parametrandola ad un monte ore prefissato? Che idiozia. Nella mia breve precedente esperienza lavorativa, che fosse la ricerca universitaria o l’attività di consulenza, ho sempre lavorato per risultati e a scadenze. Se non producevo o studiavo in tempo erano guai, se producevo male venivo pagato di conseguenza, se non producevo e basta potevo andarmene a casa. Questo invogliava anche un pigro indolente asceta come me a farsi il culo in nome della qualità e del tempismo, gestendo le mie ore in funzione della resa lavorativa richiesta ogni volta.
Poi uno arriva qui, dove un tesserino elettronico segna il suo elettrocardiogramma di lavoratore, ed il lavoro di chiunque viene all’improvviso livellato su basi stipendiali che non corrispondono nè a qualità nè al rispetto dei tempi. Il cazzeggiatore più spudorato o il lavoratore più indefesso prendono lo stesso dinero a parità di qualifica/categoria. E’ dunque ovvio che questa mostruosità porti il cazzeggiatore a rimanere tale (tanto che gliene fotte) e il lavoratore a chiedersi se sia necessario sbattersi così tanto (visto a a nessuno frega cazzi).
Si ma poi chi diamine prendo in giro, non sono qui per fare un trattato morale di organizzazione aziendale. Perdio io ce l’ho sopratutto col fottuto badge che registra la mia vita, ne scandisce i battiti quotidiani, misura il mio lavoro in minuti addebitati ed accreditati, e tramuta il tempo in una merce da gestire, in una valuta da spendere attentamente. Con conseguenze paradossali.
Del tipo, hai finito il tuo lavoro mezz’ora prima del previsto perchè sei stato bravo e produttivo e vorresti andare a casa? Stagrancippa di cazzo, ti tocca rimanere seduto a far finta di fare qualcosa, perchè se esci mezz’ora prima, per quell’occhio elettronico del menga non significa che hai lavorato meglio, ma solo mezz’ora in meno. Hai ancora del lavoro da sbrigare e sarebbe meglio farlo subito anzichè domani per motivi di efficienza? Stai attento ad essere così zelante, perchè se rimani oltre un certo orario l’occhio elettronico smetterà presto di calcolare il tuo impegno supplementare, e non degnerà di uno sguardo il tuo lavoro in più.
E così, strisciata dopo strisciata, il lavoratore dipendente si trasforma in un metronomo. Pian piano acquisisce i tempi esatti del lavoro che deve fare, sa quanto ci metterà, e i suoi ritmi si spalmeranno con precisione spaventosa sulle ore da lavorare. Nessuno sforzo in più, tanto nessuno glielo pagherà mai.
Ho passato le mie prime settimane a sbrigare a volte il lavoro di una mattinata non dico in metà tempo ma quasi. Lo zelo del debuttante mi ha fatto assalire le pratiche e precipitare sui problemi da risolvere. Col risultato che il tempo rimanente è stato un angosciante far finta di far qualcosa, un mulinare attorno al nulla, una impellente voglia di giocare al Nintendo racchiuso nello zaino.
Rimango così. Imprigionato da quel gendarme elettronico inchiodato all’ingresso ad impedirmi di uscire, a scandire i suoi lenti rintocchi al quarzo, ad uniformare i ritmi in un solo ritmo, a bruciare sforzi suppletivi e slanci di impegno, infine a modellarmi identico a migliaia di altri lavoratori subordinati. Tic, tac, tic, tac.