A primo impatto il benchmark sembrerebbe un termine di difficile comprensione, soprattutto per una persona con una bassa o inesistente cultura finanziaria. Il benchmark è semplicemente un parametro oggettivo di riferimento che serve a valutare le performance di diversi tipi di strumenti finanziari. L’art. 50, comma 2, del regolamento Consob n. 11522 del 1 luglio 1998, concernente la disciplina degli intermediari finanziari, prevede che le SGR (Società di Gestione del Risparmio) e le SICAV (Società di Investimento a Capitale Variabile), indichino nel prospetto informativo dei fondi o comparti gestiti, un parametro oggettivo di riferimento, chiamato benchmark. In parole più povere il benchmark è un parametro che consente di confrontare il rendimento del nostro investimento (per esempio un fondo comune) con il rendimento medio che ha realizzato il mercato sul quale abbiamo investito. In questo modo siamo in grado di giudicare la qualità dell’investimento realizzato nel tempo dal gestore a cui ci siamo affidati. Per cui il benchmark è un criterio di riferimento che valuta la bravura del gestore rispetto al mercato in cui investe i nostri risparmi.
Per meglio capire facciamo un esempio. Consideriamo di investire in un fondo comune
azionario specializzato nel mercato italiano, cioè in un fondo che può investire solo in azioni incluse nel listino italiano. Un possibile esempio di benchmark per questo fondo potrebbe essere l’indice FTSE MIB, cioè l’indice di Borsa italiano dei primi 40 titoli per capitalizzazione. Per cui, se dovessimo valutare l’operato del gestore del fondo, confronteremo il rendimento di detto fondo con il rendimento dell’indice nello stesso periodo. Esistono poi delle eventuali cosiddette commissioni di performance che vengono applicate sulla parte eccedente il rendimento del fondo rispetto al benchmark (queste commissioni devono essere inserite nel documento di sintesi consegnato al cliente al momento di effettuare l’investimento). Nel nostro esempio, se il benchmark, cioè l’indice italiano FTSE MIB guadagna in un anno il 10% e il fondo su cui abbiamo investito realizza il 12%, sul 2% verranno applicate le commissioni di performance.
Dobbiamo però fare anche una considerazione. E se il fondo in un anno perde rispetto al benchmark? Da precisare che le commissioni di performance possono essere calcolate su base trimestrale e persino su base mensile. Ipotizziamo che il fondo di cui sopra, essendo azionario, abbia un risultato molto positivo per i primi quattro mesi dell’anno (battendo il benchmark), ma negativo per gli altri otto, ottenendo nell’arco dell’anno un risultato nel complesso negativo. In questo caso è possibile che vengano applicate commissioni di performance per i quattro mesi positivi in cui il fondo ha fatto meglio del mercato (cioè del benchmark).
Ed ecco emergere un conflitto di interesse tra il benchmark e l’applicazione delle commissioni di performace, in relazione alla frequenza di calcolo del rendimento in un arco di tempo predefinito, con il gestore del fondo che ricerca sempre rendimenti a breve termine (ad esempio un mese) superiori al benchmark. Infatti il compenso del gestore è in parte rapportato anche alle commissioni di performance. Il problema nasce quando il gestore è spinto a correre rischi eccessivi per ottenere alti rendimenti nel breve termine, perdendo di vista il vero obiettivo del fondo, che deve essere il rendimento nel medio lungo termine. Ecco l’inganno delle commissioni di performance. E’ stato creato un sistema che premia il gestore anche quando il cliente non è soddisfatto. E tutto per legge.