Mi arrotolo. Quasi una posizione fetale per quelle ultime dieci pagine, le centellino perché non voglio che finisca e compio evoluzioni che mi vedono occupare ogni centimetro del letto. Finito. Che gran libro, che stile, che trama, che traduzione: mi viene da piangere. Tocco la copertina rigida e maltrattata e per un attimo penso di ricominciare, di leggerlo di nuovo, tutto d’un fiato stavolta e intanto mi guardo lo smalto e penso che è ora di cambiarlo. I miei pantaloncini con fragole rosse disegnate mi distraggono solo il tempo di arrotolarli un po’ di più, il tempo di lasciare che la mia testa respiri presa com’è da quelle immagini di lei morta. Voglio bere. Lasciare il letto è un’operazione più complessa di quel che credevo, il libro non vuole che io vada via, mi guarda, ma alla fine riesco a mettermi in piedi e a camminare scalza fino alla cucina per soddisfare il mio bisogno. Acqua. Poi inevitabilmente accade. Quelle parole, quel modo di combinarle, quella immedesimazione con l’eroe negativo si insinuano e penso che forse beh, forse, potrei scrivere di una donna che non si lascia sopraffare, o di lui che si pente, o magari posso lasciare andare i personaggi ma lo stile, dio mio lo stile, magari ecco potrei cercare di capire cosa funzionava così tanto da avermi sconvolta. E allora prendo il pc e premo il tasto dell’avvio, non so bene cosa voglio scrivere, ma so che voglio farlo, sto per aprire un documento di word. Bussano. Quanto vigore ci mettono, chi diavolo può essere non so, gliene devo dire quattro che quasi buttano giù la porta.
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“Che modi sono!” dico, aprendo appena appena.
“Stia ferma!” mi intima un giovane soldato con dei gradi a forma di penne. Sono confusa.
“Lo sappiamo, cosa crede, si faccia da parte e ci lasci entrare” prosegue quello e dietro di lui avanzano sei energumeni ugualmente abbigliati ma con meno penne sul petto.
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Con fare autoritario si introducono in casa mia, si guardano attorno, aspettano che io parli, mi intimano di vuotare il sacco, io stordita non so proprio di che sacco stiano parlando. Sì, forse un’oretta fa ho scaricato un film da internet, ma non ho sacchi io qua. Mi guardano torvi e io non so che dire, inclino la testa di lato come un cane sorpreso a masticare un bracciolo del divano.
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“Stava leggendo, Simenon no?”
“E lei che ne sa?” dico io, piuttosto sollevata che non siano qui per un classico Disney da guardare e non dirlo a nessuno.
“Noi sappiamo tutto!” mi dice la brutta copia del sergente di Full Metal Jacket.
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Si avvicinano alla mia scrivania, su cui si trova il mio pc sul cui schermo giace laconica la finestra “nuovo documento”. Dallo zaino di uno dei ceffi spunta un nastro giallo, ne srotola una cinquantina di centimetri e mi guarda, in segno di sfida temo, ma non ho mica intenzione di raccoglierla io. Si avvicina alla tastiera e, non capisco, me la impacchetta con quel nastro. C’è scritto “scena del crimine”. Lo sapevo: il flm.
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“Guardi, io lo so, non si fa, me ne scuso. Sono pentita, la prego, il computer mi serve per lavorare non può mica fare così. Non succederà più. Nemmeno con lo streaming, lo prometto.”
“Ma che film e film, stia zitta e mi indichi il portapenne”
“Il portapenne?”
“Sì, non faccia la furba, il portapenne, l’astuccio o la tazza che mi importa. Mi faccia vedere dove tiene le penne”
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Non sono nemmeno più confusa, ho solo il vago sospetto di essere finita in una candid camera. Sono immobile e mi arriva un manrovescio, non che mi faccia male, mi stanno solo facendo capire che non scherzano. Gli indico le penne. Ho una tazza souvenir in cui le tengo a portata di mano, ne ho alcune nelle borse, altre in un cassetto in cucina, in un portapastelli ho le matite, qui e là ci sono degli evidenziatori che nel dubbio autodenuncio. Spezzano tutto, si macchiano d’inchiostro, si sporcano le dita, sono finita nell’Arancia meccanica delle cartolerie. Mi viene da piangere, ma non piango perché se uno piange dovrà di certo sapere il perché, e io onestamente non ho capito che sta succedendo.
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“Ce ne sono altre?” mi chiede il capo di quella cricca di squilibrati.
“No, non credo. Cioè non lo so. A me piace molto la cancelleria, potrei averne ancora, mi dispiace non ho un inventario delle penne cioè io.. “ e piango, che un poco il perché lo so. Ho sette pazzi a casa mia che mi hanno impacchettato il pc con un nastro da scena dell’omicidio e mi stanno spezzando tutte le penne. Credo che basti per qualche lacrima.
“Oh non faccia scene, lei leggeva Simenon”
“Uh Gesù, sì ma che significa, che volete?”
“Appena ha chiuso il libro ha pensato di scrivere. Cosa? Un racconto? Un romanzo? Si vergogni! Ma davvero credeva di poter attingere, rubare, lasciarsi influenzare. Lei deve solo tacere, soprattutto non deve scrivere. Fino a nuovo ordine lei è interdetta dalla scrittura. Dio mio, dopo aver letto un grande, uno così, lei ha pensato anche solo per un secondo di poter essere all’altezza. Ma siamo seri! Si comporti da adulta e lasci che siano quelli bravi a usare la penna e la tastiera. Ci siamo capiti?”
“…” mugolo, ma per fortuna quelli capiscono che significa sì.
“Arrivederci, e in futuro sia più assennata”
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Così come sono venuti se ne vanno, senza dire una sola parola torno a letto. Mi arrotolo. In posizione fetale mi ritrovo dove ero pochi minuti prima, con quella copertina che mi guarda e ride. È proprio nel libro, quel dannatissimo libro, che vedo una matita dimenticata con la quale ho sottolineato alcuni dei più bei passaggi. La prendo in mano, la rigiro tra le dita, la poso. Non oso scrivere una sola parola.