Ci sono frasi che sembrano banali, eppure non lo sono. “Io voglio che i miei ospiti si alzino da tavola contenti e che poi abbiano voglia di tornare”, detto da uno chef o da un ristoratore, sembra per l’appunto una frase poco interessante. Se avessimo però la cura di analizzarne il contenuto in base a tutte le implicazioni che nasconde, dovremmo dire che in fondo si tratta dell’unica frase possibile per esprimere l’essenza di un pranzo o una cena in un ristorante. Essenziale è anche la cifra della cucina di Fulvio (Fulvietto) Pierangelini, patron de “Il Bucaniere” di San Vincenzo (Livorno). Cercherò di spiegarvi il perché. Non prima però di un paio di necessarie digressioni.
Prima digressione: Fulvio Pierangelini è il figlio di Fulvio Pierangelini. Agli amanti della grande cucina questo nome ricorderà sicuramente molte cose, in primo luogo un ristorante – il “Gambero Rosso” – che proprio a San Vincenzo ha costituito per decenni un faro, ricercato e apprezzato dai gourmet di tutto il mondo. “Il Gambero Rosso” non esiste più da tempo e persino il contesto ambientale in cui era perfettamente incastonato, il porticciolo di San Vincenzo, è stato danneggiato considerevolmente dalla creazione di un “porto turistico” di dubbia qualità. In queste condizioni l’evoluzione de “Il Bucaniere” rappresenta una sorta di doppia salvazione. Da un lato perché la sua collocazione, fuori dallo spazio del porto turistico, ci fa ancora percepire lo spirito del luogo; secondariamente perché la pesantissima eredità del padre sta trovando una interessante evocazione nell’opera del figlio omonimo: ovviamente lontana da ogni confronto “tecnico”, tuttavia innegabile come sarebbe innegabile affermare che il modo migliore per accostarsi a un modello non significa mai tentare di imitarlo pedissequamente. Viene in mente l’espressione di Ludwig Wittgenstein – “somiglianze di famiglia” – a proposito di ciò che accomuna giochi diversi: anche se talora potremmo dire che cosa nel figlio sia simile al padre o alla madre, non è in rapporto a dei “pezzi” – il naso, il mento o gli occhi – che si parla di solito di somiglianza di famiglia. Si tratta piuttosto di un’aria di famiglia che manifesta l’appartenenza ad essa attraverso somiglianze sfuggenti
Seconda digressione: quando giudichiamo un ristorante giudichiamo sempre l’esperienza complessiva che si può fare in quel ristorante, mai un singolo aspetto (sia pure quello che appare il principale, ossia la qualità dei cibi). Definiamo eccellente un ristorante allorché l’intreccio complessivo delle sensazioni dateci da ciò che lo compone (sia all’interno che all’esterno) viene esaltato in base all’esame di ogni suo componente. Nel caso de “Il Bucaniere” abbiamo un locale posto in riva al mare, si tratta addirittura del ristorante di un bagno, realizzato dall’architetto Massimiliano Fuksas, che entra in una relazione diretta con ciò che lo circonda e alla fine lo penetra. Per “relazione diretta” intendo, aristotelicamente, questo: stando seduti a un tavolo del dehors, come ho fatto io in una serata d’estate, il mare si pone quale condizione di imprescindibile “potenza” nei confronti dell’“atto” del mangiare e del bere. Il passaggio però non è scontato (esistono migliaia di locali “affacciati” sul mare), in quanto – anche se protagonista in modo evidente – il mare rimane pur sempre un suggerimento che poi deve essere completato. E l’arte di una cucina risulterà rimarchevole proprio accogliendo quel suggerimento, mettendolo per di più in relazione a ciò che è possibile vivere trascorrendo del tempo seduti. Inutile ricordare che anche la presenza degli altri, il tono della loro voce, gli argomenti dei quali si parlerà concorrono a integrare e definire l’esperienza complessiva. Da quanto precede si sarà capito che l’esperienza estetica resa possibile da “Il Bucaniere” consente di godere in una chiave pienamente riuscita quanto qui appare solo dal punto di vista teorico.
Espletate le due digressioni, non resterebbe altro che parlare finalmente della cucina. Se però ci si aspetta una serie di nomi di piatti e qualche nota impressionistica al riguardo, deluderò chi ha seguito il mio discorso fin qui. Del resto non è certo descrivendo soggettivamente tre o quattro piatti che si può rendere conto dell’esperienza complessiva citata. Il punto principale, la promessa che posso fare a chi (come spero) vorrà provare in prima persona, è dato dall’eleganza di una proposta gastronomica capace di liberare la materia prima da ogni impaccio, da ogni effetto e soprattutto da ogni remora di corrispondere a un determinato status (paradossale ma vero: la semplicità come frutto di una lunghissima ricerca, propria della grande cucina, qui si dà decostruendo l’idea di semplicità stessa, magari aggiungendo qualcosa – una salsa, un colore, un ingrediente spiazzante – come per irriverente sbadatezza). Per dirla con un’analogia: è come quando si cammina su una spiaggia, lasciandosi bagnare i piedi, seguendo il profilo dell’onda che si distende e ritira, scoprendo le cose che l’acqua copre e rivela, chinandosi a raccoglierne qualcuna (una conchiglia, un pezzetto di plastica, un piccolo legno) e pensando che a casa andranno a comporre una piccola e povera scultura bagnata però da tutti i ricordi appena collezionati. Al “Bucaniere” di Fulvio Pierangelini si va e si torna per questo.