Questo articolo va un po’ controcorrente: la maggior parte dei colleghi dietisti o nutrizionisti elogia le presunte capacità salutistiche del caffè (antiossidanti, “brucia-grassi”, energizzanti…), io invece voglio parlavi dei rischi che sono correlati all’assunzione della bevanda più amata del mondo.
Le mie perplessità sul caffè hanno una genesi non recente: che creasse dipendenza lo sapevo, ma non avevo mai capito quanto realmente fossi legata alla sua assunzione fino a quando un anno fa non mi sono resa conto che se per qualche motivo non riuscivo a prendere la “santa” tazzina a metà mattina o dopo pranzo cominciavo veramente a sentirne un bisogno impellente. Ho dovuto ammettere a me stessa che non era “il rito” della moka di caffè condivisa con mia mamma a mancarmi, ma proprio la bevanda in sé, al punto che è capitato più di una volta che facessi una puntata in un bar al solo scopo di prendere il caffè. Non per fare un break, non per condividere il rituale con qualcuno, ma per avere il caffè.
Non amo le dipendenze di alcun genere. Non appena mi sono resa conto di averne una ho cominciato anche a domandarmi che altri effetti potesse avere la caffeina sul mio corpo: possibile che il mio nervosismo, la mia sensazione di iper-allerta e persino la mia stanchezza precoce potessero essere correlati al caffè? Assurdo, il caffè dà energia, non la toglie! O mi sbagliavo…? L’unico modo per capirlo era provare: non avrei più bevuto caffè per un mese e ne avrei monitorato gli effetti.
Non ero una grande consumatrice di caffè, a onor del vero… Una tazzina da moka a metà mattina e una tazzina doppia dopo pranzo, qualche volta a metà pomeriggio. Non mi aspettavo minimamente gli effetti che ho accusato a seguito della sua sospensione, e per fortuna che era una domenica cosicché il mio lavoro non ne ha risentito! Quel giorno non ho fatto altro che stare sdraiata sul divano, mezza addormentata e con un mal di testa pulsante che mai avevo sentito in vita mia. Il giorno successivo è andato leggermente meglio, e in quelli a seguire progressivamente non ho più avvertito sintomi fisici dall’astensione.
Quello che mi ha più sorpreso non è sono stati i sintomi da astinenza, ma ciò che è successo nelle settimane successive: senza cambiare nient’altro della mia vita ho cominciato a non sentirmi costantemente in allerta, a non innervosirmi per un nonnulla e a non preoccuparmi per gli imprevisti. Il mio carattere leggermente ansioso e la mia predisposizione all’organizzazione non sono spariti, ma i loro aspetti più problematici si sono prima smorzati e poi spenti. A riprova del fatto che il colpevole era il caffè, durante le mie vacanze estive ho provato per qualche mattina ad assumerlo per colazione: ho smesso dopo 3 giorni, o la convivenza con la dolce metà ne avrebbe assai risentito!
Mi rendo conto che tutto questo sia la descrizione di un’esperienza personale, e che non ci siano i presupposti per consigliare l’astensione dal caffè ad altri. Ma fortuna vuole che qualche mese fa io mi sia imbattuta in un libro che parlava proprio del lato oscuro del caffè, descrivendo con una ricca bibliografia scientifica ogni correlazione descritta. Per chi fosse interessato, il libro si intitola Caffeine Blues ed è scritto da Stephen Cherniske, ricercatore e nutrizionista clinico statunitense. Purtroppo non si trova l’edizione italiana, ma il testo scritto in inglese è molto fluido e comprensibile.
In quest’articolo (a dire il vero, diviso in due parti) vi parlerò di alcune situazioni descritte dal libro nelle quali credo che molti di voi si riconosceranno; mi atterrò alla parte strettamente salutistica, evitando di parlare delle motivazioni etiche ed ambientali che possono spingere una persona a non consumare caffè (sfruttamento della popolazione locale nelle piantagioni, deforestazione, presenza massiccia di pesticidi chimici sulle coltivazioni…).
Prima di addentrarci nel cuore del problema è bene chiedersi perché tutti parlino dei presunti benefici del caffè, e nessuno (o quasi) accenni ai suoi rischi.
La questione è complessa, ma Cherniske ipotizza che -guarda un po’- gli interessi commerciali che stanno alla base siano tutti volti ad enfatizzare le qualità del caffè, minimizzandone i difetti. Il caffè è la bevanda più venduta al mondo: l’impero di cui è padrone ruota intorno a cifre colossali, e comprende anche quella sterminata schiera di soft-drink ed energy-drink con caffeina (Coca-Cola, Pepsi, Redbull…). Ammettere che il consumo di caffeina sia strettamente correlato a una serie di problemi fisici non farebbe i vantaggi delle grandi aziende, soprattutto se consideriamo che molte ricerche correlano la caffeina alla sindrome di iperattività e deficit dell’attenzione nei bambini (ADHD) e che la Coca-Cola sia presente in ogni happy-meal, distributore automatico nelle scuole, cinema o festicciola che si rispetti. Né sarebbe gradevole far sapere alla popolazione che il consumo di caffeina è correlato a disturbi psicologici e dell’umore come attacchi di panico, rabbia, depressione, stati d’ansia e iperagitazione.
Le motivazioni, comunque, non si fermano agli interessi economici: Cherniske fa notare che “la caffeina non è considerata dannosa perché ci si riferisce sempre a un consumo medio”, ovvero ad una quantità media di caffeina assunta quotidianamente da una persona media, vale a dire… un’illusione. In questa “media” fanno testo anche coloro che non assumuno caffeina e coloro che ne assumono il triplo rispetto a ciò che viene considerato ‘normale’; tenendo conto che la tolleranza alla caffeina è strettamente individuale, si conclude che non è possibile stabilire quale dose sia da considerarsi sicura per un dato soggetto. Se assumete farmaci (pillola anticoncezionale compresa) o avete preso antibiotici recentemente avrete meno capacità di detossificare il corpo dalla caffeina, così come se avete superato la cinquantina, o se soffrite di patologie al fegato.
A onor del vero, è quasi impossibile anche stimare la quantità giornaliera di caffeina assunta da ciascuno di noi, dal momento che varia a seconda dei tempi di infusione e dalla varietà di caffè usata (oltre che, ovviamente, dalla quantità di caffè assunta).
Molte persone sono sensibili alla caffeina senza saperlo: assumono quotidianamente una quantità di questa sostanza che è considerata ‘normale’ per le ricerche scientifiche, ma che è nettamente eccessiva per quello che il loro corpo può sopportare.
Secondo quanto scritto da Cherniske bisogna distinguere il livello minimo di caffeina che crea dipendenza da quello che crea un effetto organico: se da un lato è improbabile che entro i 100 mg di caffeina al giorno si abbia dipendenza, non è escluso che tale quantità sia sufficiente a creare qualche sintomo nell’organismo.
Per la cronaca, un espresso al bar contiene circa 80 mg di caffeina, mentre una moka singola ne contiene di più a causa dei tempi di infusione più lunghi.
Il ricercatore autore del libro ammette che il caffè abbia inizialmente una serie di effetti avvertiti come positivi, ma che sul lungo termine tali effetti siano completamente annullati dalle conseguenze negative della caffeina; i problemi esposti nel suo libro sono riferibili a consumatori abituali di caffè (più di due tazzine al giorno), e sono variabili a seconda della sensibilità e della tolleranza individuale. Della sensibilità abbiamo appena parlato, concentriamoci invece sulla tolleranza: il consumo di caffeina genera nel corpo un livello di tolleranza sempre crescente, tale per cui se inizialmente ci bastava una tazzina per sentirne gli effetti positivi con il passare delle settimane avremo bisogno di due o tre tazzine al giorno. Di pari passo aumenteranno anche gli effetti negativi.
Ma quali sono esattamente gli effetti della caffeina sul corpo?
Si tratta di una vasta sfera di fastidi più o meno consistenti: solo eliminando per un mese il caffè e altre fonti di caffeina potrete rendervi conto di quanto effettivamente incidessero sulla vostra salute e sul vostro umore.
Le conseguenze citate da Cherniske, ciascuna delle quali nel libro viene giustificata da un preciso meccanismo biochimico, sono:
Senso di affaticamento e debolezza, alti e bassi dell’umore, mal di testa, dissenteria, bruciore di stomaco, stipsi o -all’opposto- aumentato transito intestinale, tensione al collo, bruxismo, sindrome premestruale accentuata, insonnia, dolore quando si respira, ansia, irritabilità, tremiti muscolari involontari, ulcera, anemia, ipertensione, difficoltà a concentrarsi, ronzio alle orecchie.
Una bella lista, vero? E quel che sembra assurdo è che per alcuni di questi sintomi molti suggeriscono il caffè come palliativo, ad esempio per la debolezza o i mal di testa!
C’è da chiedersi se tutti i consumatori di caffeina sviluppino i sintomi sopra descritti: a mio parere è come chiedersi se tutti i fumatori sviluppino cancro ai polmoni.
Un fumatore che inizia ad avere voce rauca, bassi livelli di vitamina C e tosse persistente dovrebbe ascoltare di più il proprio corpo. Allo stesso modo, se siete consumatori abituali di caffeina e avvertite qualcuno dei sintomi sopra esposti, forse è il caso di provare a smettere.
“Provare a smettere”: sembra quasi il consiglio che si dà a chi dipende da sostanze stupefacenti! E in effetti… è proprio così: il caffè dà dipendenza, una dipendenza che si manifesta in tutta la sua potenza quando sospenderete la caffeina. Mal di testa, stanchezza, irritabilità, dolore pulsante agli occhi e alle tempie… Una vera crisi di astinenza, che io stessa ho sperimentato: se decidete di smettere con il caffè dovete essere pronti a queste conseguenze, e non farlo in un giorno super impegnativo a livello professionale, o nel quale dovete concentrarvi nello studio per un esame. Vi avverto: starete male.
Solo l’1% della caffeina viene escreto attraverso la filtrazione renale; il rimanente 99% deve essere detossificato dal fegato attraverso complesse reazioni biochimiche: ci vogliono almeno 12 ore per detossificare una singola tazza, e si stima che serviranno almeno 7 giorni per ‘decaffeinare’ il sangue di caffeinomani incalliti. Non solo: saranno necessarie ben altre tre settimane affinché i livelli ormonali di stress tornino alla normalità.
Gli scienziati definiscono ‘emivita’ il tempo che il corpo necessita a rimuovere mezza dose di un determinato farmaco; l’emivita della caffeina dipende dall’età, dal sesso, dal peso e dai farmaci in uso: l’emivita può variare da 3 a 12 ore, ed ha un effetto cumulativo (più caffè bevete, maggiore sarà l’emivita). Questa varietà è uno dei motivi per cui Cherniske trova assurdo il consiglio di “bere caffè in moderazione”: nel tempo in cui una persona avrà completamente decaffeinato il proprio organismo, un’altra potrebbe non aver avuto modo di decaffeinare nemmeno metà dose!
Per alleggerire l’argomento concludo qui la prima parte riguardante il lato oscuro del caffè. Tra qualche giorno pubblicherò il seguito, ossia tutte le indicazioni per le quali si sconsiglia il consumo di caffeina, e la dipendenza da essa! Penso che vi riconoscerete in alcune casistiche… A presto!