Nel 2014, dopo cento anni dalla sua inaugurazione, si concluderanno i lavori per l’ampliamento del canale di Panama, un progetto di grande rilevanza[1]. L’intento della ACP – l’Autorità del Canale di Panama – è quello di raddoppiare le operazioni di transito navale, attraverso un terzo e più ampio sistema di chiuse. Così facendo, sarà consentito il passaggio delle imbarcazioni post-panamax[2] finora precluso a causa delle ridotte dimensioni dell’attuale sistema.
Le necessità che hanno portato a questo rinnovamento derivano dalle nuove e crescenti sfide che il condotto interoceanico dovrà affrontare nel corso del XXI secolo, quale nodo nevralgico internazionale del trasporto marittimo commerciale. Ciononostante, il semplice punto di vista economico non è in grado di fornire da solo una visione ampia e completa della questione, utile a comprendere quelle sfide a cui l’amministrazione del canale è chiamata a rispondere. Dunque, risulta necessario muoversi verso un livello più profondo, quello geopolitico, alla luce del quale sarà possibile capire il ruolo fondamentale giocato, e ancora da giocare, dal crocevia centroamericano.
Il binomio indissolubile
Nel riflettere sulla questione di Panama e del suo canale, non è possibile prescindere dall’influenza che gli Stati Uniti hanno esercitato, lungo il corso del suo secolo di storia. Già dalla fine del XIX secolo il potenziale strategico dell’istmo, grazie alla sua favorevole posizione geografica, era ben noto alle potenze dominanti dello scacchiere internazionale dell’epoca[3]. Di fatto, rappresentava una soluzione all’assenza di un collegamento diretto tra oceano Atlantico e Pacifico, allora molto sentito a causa degli alti costi e dei lunghi tempi di percorrenza della rotta commerciale tra Asia e Occidente.
I lavori per la costruzione del canale incominciano nel 1904[4], dopo la sigla del trattato Hay-Bunau Varillla (tra USA e il neonato Stato di Panama)[5], il quale prevedeva l’istituzione della Zona del Canale, una fascia di territorio larga dieci miglia sulla quale Washington avrebbe esercitato liberamente la propria sovranità. Con tale accordo, Roosevelt si assicura la piena gestione del canale per i futuri cento anni dando così il via alla “politica del grande bastone” – corollario della dottrina Monroe e, allo stesso tempo, strumento essenziale a garantire la spinta imperialista statunitense di inizio secolo. In tal modo, da un lato gli Stati Uniti si assicuravano il ruolo di attore cardine nelle dinamiche economico-politiche del subcontinente americano; dall’altro mantenevano ben saldo il proprio interesse nazionale nell’intera area.
È da notare, tuttavia, che il trattato non fu privo di conseguenze nelle relazioni tra i due Paesi. Si generò un contenzioso che raggiunse il punto di massima criticità nel 1964, quando gli scontri tra gli abitanti dei due stati nella zona del canale si conclusero con l’uccisione di 22 panamensi e 4 soldati statunitensi. La soluzione all’incidente diplomatico giunse nel 1977 con la firma di un nuovo accordo, il trattato Carter-Torrijos, il quale sanciva la neutralità del canale e il diritto statunitense ad intervenire nel solo caso fosse messa in pericolo da aggressioni esterne. Cosa più importante, si prevedeva una transizione per il possesso del canale, terminata il 1° Gennaio 2000 con l’effettivo passaggio di sovranità allo Stato panamense[6].
Una risorsa di potenza
Nel giugno 2006, l’Autorità del Canale di Panama ha pubblicato un documento dal titolo Plan Maestro. In esso è delineata una strategia a lungo termine, con la quale si propongono principi, interventi e misure da attuare fino al 2025. Tra questi assume rilevanza l’obiettivo di rafforzare la capacità competitiva del canale sul mercato mondiale. Già sfogliando le prime pagine, emerge chiaramente l’importanza economico-strategica che riveste ancora oggi quest’arteria marittima e come abbia ripercussioni sia sul piano nazionale che su quello internazionale.
Per quanto riguarda il primo, nel rapporto dell’Autorità si evidenzia come le attività di transito abbiano sviluppato, lungo il corso del tempo, un vero e proprio sistema economico del canale (SEC): un asse interdipendente di attività di commercio, finanziarie, logistiche, di assicurazioni e servizi. Grazie alla sua stretta relazione con il condotto interoceanico, il SEC ha generato non solo esportazioni direttamente riconducibili al funzionamento del canale, ma anche esportazioni “accessorie” legate e stimolate dal passaggio delle navi per l’istmo. Per avere un’idea, è sufficiente osservare un dato relativo all’anno 2011: negli scorsi 12 mesi sono transitate circa 14.200 navi, rappresentando un introito netto di circa 1,5 miliardi di dollari[7] per le casse statali panamensi.
In merito al secondo, la rotta attraverso il passaggio istmico costituisce attualmente il 5% del commercio mondiale di merci, configurandosi come elemento essenziale per il collegamento tra la costa orientale degli Stati Uniti e il crescente mercato asiatico, capitanato dal colosso cinese insieme a Taiwan, Giappone e Corea del Sud. Ma la lista dei paesi utilizzatori non si esaurisce qui: il canale è un tassello fondamentale per le esportazioni di alcuni Stati sudamericani – quali Cile, Ecuador, Perù e Colombia (vedi fig. 1) – divenendo così un asset macroeconomico di vitale importanza. È in quest’ottica, dunque, che vanno letti i malumori manifestati dai rappresentati delle autorità di Cile, Ecuador e Giappone riguardo all’aumento del costo dei pedaggi decisi dall’ACP, durante la conferenza per le consultazioni apertasi lo scorso maggio[8].
In linea generale, il discorso descritto finora permette di comprendere come l’attività del canale sia inquadrabile tanto in termini economici di vantaggio comparato per il sistema panamense, nel quale il suo effetto moltiplicatore contribuisce alla creazione di nuove opportunità di guadagno e di crescita a sostegno dello sviluppo interno al paese; quanto in termini più geopolitici di “risorsa di potenza”: strumento strategico direttamente fungibile, nonché variabile indipendente in grado di condizionare il comportamento dei diversi attori coinvolti a livello internazionale, legato alla tutela e al mantenimento dei rispettivi interessi nazionali.
Le sfide
All’inizio del discorso si è accennato alle sfide che la ACP si è trovata ad affrontare dopo il passaggio di consegne da parte statunitense, all’ingresso nel nuovo secolo. Secondo lo studio condotto nel Plan Maestro, una tra le più rilevanti è la progressiva trasformazione nella tipologia del commercio marittimo transitante attraverso l’istmo.
Fonte: Autoridad del Canal de Panamá, Plan Maestro, Giugno 2006, p. 17; consultabile al sito http://www.pancanal.com/esp/plan/temas/plan-maestro/
In passato, il traffico dei prodotti sfusi (sia secchi che liquidi quali mais, frumento e soia, ma anche carbone, petrolio grezzo e suoi derivati) rappresentava il maggior generatore di entrate per il sistema del canale. A partire dal 2002, tale traffico è stato progressivamente rimpiazzato dall’aumento del trasporto di merce in container – questo soprattutto a causa della crescita accelerata dell’area nord-est dell’Asia, e in particolare della Cina[9], quale regione esportatrice di prodotti manufatti verso gli Stati Uniti.
In base a quello che affermano gli analisti, questa tipologia di transito marittimo detiene un maggior potenziale di crescita rispetto a quella passata, spingendo così l’amministrazione del canale sia a modificare la gestione e il servizio offerto, che a rivederne le prospettive di sviluppo futuro. Attualmente il canale opera al 85% della sua capacità massima, in un mercato internazionale situato in un contesto altamente competitivo. Tale insufficienza è dovuta alle limitate dimensioni del condotto, ormai non più adatte all’impiego sempre maggiore delle imbarcazioni post-panamax. Di conseguenza, la ACP non è più in grado di rispondere in maniera soddisfacente alle esigenze delle società utilizzatrici del passaggio interoceanico.
Dunque, secondo questa prospettiva più economica risulta semplice intuire il perché delle ragioni dell’ampliamento. Nonostante ciò, se si guarda la vicenda da una lente più geopolitica è possibile scorgere altri aspetti, ugualmente densi di rilevanza e sempre configurabili come sfide a cui far fronte.
Un paragrafo del Piano è intitolato “Competitori del canale” e in esso sono menzionati gli attuali “disturbatori”, ossia altri punti nevralgici nel sistema del commercio mondiale capaci di minare il potenziale strategico del passaggio istmico. Fra quelli citati, i due che destano maggiori preoccupazioni sono il Sistema Intermodale degli Stati Uniti e il Canale di Suez.
Il primo – un insieme di porti, ferrovie e autostrade, combinato con la rotta marittima transpacifica - è in grado di collegare la costa Ovest alla costa Est degli Stati Uniti e di trasportare merce containerizzata in minor tempo rispetto alla rotta passante per il canale panamense. In questo modo, i trasportatori hanno la possibilità di utilizzare le imbarcazioni post-panamax nel tratto attraverso il Pacifico. Lo svantaggio che caratterizza questo sistema è rappresentato dal suo costo elevato di utilizzo: secondo quanto rilevato in un articolo del The Economist[10], la tratta Shanghai-New York costa circa 600 dollari in più per container, con una percentuale che varia dal 50% al 70% in relazione ai costi operativi delle navi.
Il secondo, grazie alla sua conformazione strutturale e posizione fisica, permette il transito delle enormi navi portacontainer. Tuttavia, anche in questo caso è possibile evidenziare uno svantaggio rispetto al passaggio centroamericano: la rotta Shanghai-New York attraverso il Canale di Suez impiega approssimativamente 27/28 giorni, mentre quella attraverso Panama ne impiega 25/26, permettendo un risparmio sia in termini di costi che di tempi di percorrenza.
Dunque, dalle considerazioni fatte finora è possibile inquadrare in una visione più ampia le ragioni che hanno spinto l’amministrazione panamense ad affrontare le problematiche presentatesi in questi ultimi anni. Consapevole che il mantenimento della posizione strategica del canale nelle dinamiche geopolitiche, sia a livello regionale che a livello internazionale, è di vitale importanza.
A tal proposito, è interessante notare un altro elemento, inquadrabile in una certa misura come sfida; un evento che indirettamente conferma quanto appena scritto, permettendo di cogliere ancor di più come gli interessi in gioco in quest’area del globo siano tutt’altro che marginali. In una dichiarazione rilasciata al Financial Times[11], il presidente colombiano Juan Manuel Santos ha annunciato una possibile futura collaborazione con il governo di Pechino. L’intento è di creare una linea ferroviaria che collegherebbe le due sponde colombiane[12]. In base a quanto affermato dai rappresentati delle due autorità, il progetto è la “naturale” conseguenza del rapporto sempre più intenso tra i due Stati. Di fatto, la Cina si posiziona al secondo posto, dopo gli Stati Uniti, come maggior Paese importatore di prodotti colombiani; cosa più importante, attraverso il “canale secco” Pechino si assicurerebbe una porta d’ingresso “privata” al subcontinente americano, competendo direttamente col passaggio marittimo panamense.
Ciononostante, è difficile prevedere quali saranno gli sviluppi futuri a cui una notizia di tale rilevanza può portare. D’altra parte, è di qualche mese fa l’entrata in vigore dell’accordo di libero scambio tra USA e Colombia, dopo sei anni dalla sua firma, il quale conferma la volontà di Washington a mantenere ancora saldo il suo ruolo chiave nelle dinamiche dell’area.
Ed è proprio in uno scenario di questo tipo, denso di diversi e crescenti interessi contrastanti, che si situa ancora una volta il Canale di Panama quale punto nevralgico di importanza geopolitica. Un nodo essenziale non solo nelle relazioni tra i diversi Paesi della macroarea latinoamericana, ma anche in quelle dei principali attori del sistema internazionale attuale.
*Massimo Aggius Vella – laureando in Scienze Politiche e di Governo presso l’Università degli Studi di Milano.
Note:
[1] L’appalto per i lavori è stato vinto da un consorzio internazionale guidato dall’impresa spagnola Sacyr Vallehermoso e dall’italiana Impregilo.
[2] Le navi post-panamax sono delle portacontainer, della lunghezza di circa 1.400 piedi, capaci di trasportarne più di 4.500 per imbarcazione.
[3] Il 1901 vede la firma del trattato Hay-Paunceforte, tra Gran Bretagna e Stati Uniti. Con tale accordo, Londra accettava che Washington avviasse autonomamente i lavori per la costruzione del passaggio istmico, a condizione che venisse garantita la parità di trattamento alle altre Nazioni e la libertà di transito.
[4] In precedenza a quello statunitense, nel 1880 vi fu un tentativo di costruzione per mano dell’ingegnere francese Lesseps, già ideatore del Canale di Suez, il cui esito si rivelò un fallimento totale.
[5] Nel 1903, grazie all’appoggio militare fornito dagli Stati Uniti, i ribelli indipendentisti panamensi dichiararono l’indipendenza del paese dalla Colombia. Tale fu la reazione di Washington alla mancata ratifica, da parte del senato colombiano, del trattato Hay-Herrán che prevedeva le stesse condizioni di quello siglato nel 1904.
[6] Attualmente, rimane in vigore il solo trattato di neutralità del canale, tra i cui firmatari è presente anche l’Italia.
[7] I dati citati sono presenti nel rapporto congiunto, tra i ministeri italiani degli esteri e dello sviluppo economico, consultabile all’indirizzo http://www.rapportipaesecongiunti.it/rapporto-congiunto.php?idpaese=65
[8] Per avere un’idea più chiara della vicenda, è possibile leggere le dichiarazioni delle diverse autorità al seguente indirizzo http://www.panamaamerica.com.pa/notas/1187269-chile-ecuador-y-japon-objetan-aumento-peaje-canal-panama
[9] Attualmente la Cina si situa al secondo posto nella classifica degli utilizzatori più importanti del canale, dopo gli Stati Uniti.
[10] L’articolo è consultabile al sito http://www.economist.com/node/15014282
[11] La dichiarazione risale a circa un anno fa.
[12] Oltre al canale, sono previsti sia la costruzione di una città-terminal sulla costa pacifica, centro di assemblaggio delle merci cinesi, che l’ampliamento del porto della città di Buenaventura, situato sulla sponda caraibica.
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