40 morti e 56 feriti. Alcuni di loro si sono fatti esplodere. La televisione di stato Tianshan ha riferito che nei tumulti e nelle esplosioni del 25 settembre, hanno perso la vita 30 attivisti uighuri, 6 civili e 4 membri delle forze dell’ordine rimasti coinvolti negli scontri.
Questo è il risultato dell’ennesima “dimostrazione” degli uighuri cinesi: etnia turcofona e mussulmana di maggioranza (45%) della “Regione autonoma dello Xinjiang”, nell’estremo estremo ovest della Cina.
19 milioni di abitanti, lo Xinjiang si trova in una rilevante posizione strategica: confinando con il Tibet a sud, le province di Qinghai e di Gansu a sud-est; Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan, Pakistan e la parte del Kashmir controllata dall’India a ovest e infine con la Russia a nord.
Se l’attenzione dell’Europa, degli Stati Uniti e del mondo intero risulta magnetizzata dal divampare dell’Isis, e dell’infinita crisi ucraina, anche il Dragone rosso cinese si trova ad affrontare un sostanziale disordine nell’assetto interno della propria vasta estensione geografica.
Una crisi quella degli uighuri, non paragonabile per forma e sostanza alla struttura dell’Isis, e neanche così tesa a livello diplomatico come la “guerra civile” in Ucraina, ma che comunque preoccupa – e non di poco – le autorità cinesi. Anche considerata l’importanza strategica e gli interessi legati alle risorse di materie prima di tale regione.
Un’escalation di violenze, attacchi terroristici, tensioni con Stato centrale e forse dell’ordine, pare stiano dando alla questione dello Xinjiang una irreversibilità spiazzante. Con un governo cinese, che annaspando tra insabbiamenti e bugie, trova serie difficoltà ad assicurare la tranquillità nella regione autonoma.
Inoltre risalire all’origine degli eventi tramite fonti autonome appare davvero problematico, le conformazioni montuose e desertiche del territorio dello Xinjiang rendono ardue osservazioni dall’esterno. Così come la forte censura attuata dal governo centrale.
Andando a ritroso negli ultimi mesi, l’evento di ieri appare solo come l’ultimo di una lunga serie:
Il 29 luglio durante una sommossa nello Xianjiang rimangono coinvolti un centinaio di persone fra morti e feriti. Gli ughuri, rappresentati anche da varie associazione all’estero – principalmente in Germania e negli States – attaccano lo stato Cinese di essere colpevole di un “massacro a sangue freddo” di manifestanti pacifici; Pechino – tramite l’agenzia Nuova Cina – parla di intervento della polizia, esclusivamente come reazione ad un improvviso attacco di terroristi uighuri nei confronti di civili.
Secondo un manifesto dell’associazione degli uighuri negli Usa, la protesta sarebbe avvenuta in seguito alle restrizione di Pechino alle pratiche di ramadan, il mese islamico del digiuno. Nel comunicato emesso, l’associazione accusa il governo cinese di emarginare l’etnia islamica dallo sviluppo economico e di essere stati trasformarti in minoranza etnica nel proprio territorio a causa della forza immigrazione dalle altre regioni della Cina.
28 giugno. L’emittente statale cinese Cctv ha dato notizia di un nuovo attacco di militanti uighuri con un imprecisato numero di vittime nella Regione autonoma uighura dello Xinjiang. L’attacco sarebbe stato sferrato a Hotan, nella parte sud dell’ex Turkestan Orientale, a un migliaio di chilometri di distanza in direzione ovest rispetto a Turpan, dove due giorni prima i tumulti hanno provocato almeno 35 morti, 46 stando alla stazione filo-dissidente ‘Radio Free Asia’.
Il Congresso Mondiale Uighuro, organizzazione oppositrice in esilio ed espressione della minoranza turcofona e musulmana denuncia “una vasta repressione” e “un black-out informativo”, a prova del non funzionamento della maggior parte delle linee telefoniche locali dal 22 maggio.
22 maggio. A Urumqi, capoluogo dello Xinjiang, due autovetture vengono scagliate nella zone del mercato cittadino, solitamente frequentato da immigrati cinesi nella regione. Dalle auto vengono gettate sulla folla vari esplosivi, dopodiché una delle auto salta in aria. Il bilancio è di 31 morti e 94 feriti.
Il governo cinese non attribuisce ufficialmente ad alcuna sigla separatista la responsabilità del fatto. Il presidente Xi Jinping, in una dichiarazione, promette di «punire severamente» i colpevoli chiedendo alle autorità locali di «risolvere rapidamente il caso, di prestare le dovute cure ai feriti e di esprimere le condoglianze del governo alle famiglie delle vittime».
6 maggio. Due uomini armati di coltelli attaccano i passanti della stazione di Canton, capoluogo della provincia sud-orientale cinese del Guangdong. Il primo dei due riesce a ferire 6 persone, il secondo uomo viene affrontato, disarmato e consegnato alla polizia da un lavorante migrante del Gansu.
Il Ministero della Pubblica Sicurezza Cinese aumenta le misure di sicurezza nelle maggiori città del paese: A Pechino, vengono inviati 150 gruppi di agenti delle squadre anti-terrorismo: 1300 agenti paramilitari con il compito di sorvegliare, segnalare e fermare individui sospetti o situazioni non ordinarie.
30 aprile. Poche ore dopo la fine della visita del presidente cinese Xi Jinping nella Regione autonoma uighura dello Xinjiang, si susseguono un’esplosione e un attacco a colpi di coltello nella stazione di Urumqi. 79 i feriti e tre le vittime, fra cui i due attentatori. Principale sospettato e’ un uomo di 39 anni, Sedirdin Sawut.
Il 1° marzo ha luogo a Kunming, capoluogo della provincia meridionale cinese dello Yunnanuno, uno dei due attentati più mediatici degli ultimi mesi. Un gruppo di uomini armati di lunghi coltelli, una volta entrati nella stazione ferroviaria della città, colpiscono e uccidono in pochi minuti, 29 persone che ignari stavano scendevano dai treni a fine corsa. Le forze dell’ordine instaurano uno scontro a fuoco dove perdono la vita quattro attentatori. Altri quattro membri della cellula vengono arrestati poco dopo, secondo le autorità tutti le otto persone sarebbero di etnia uighuri, con a capo un uomo di nome Abdurehim Kurban.
L’attentato appare come il più grande commesso da un gruppo separatista dello Xinjiang al di fuori della regione autonoma.
27 gennaio – 14 febbraio. Tre esplosioni in luoghi di ritrovo a Xinke, località al confine con il Kirghizistan vengono attribuiti a un cittadino di etnia uighuri, Ibrahim Qahar. Nelle esplosioni e nel successivo scontro a fuoco con le forze dell’ordine perdono la vita dodici persone.
Poche ore prima muoiono 11 uomini di etnia uighuri, dopo uno scontro a fuoco con le guardie di frontiera kirghise. Gli uomini stavano cercando di attraversare il confine con la Cina. Il 14 febbraio, in un altro attacco con le forze dell’ordine, nella cittadina di Aksu, sempre vicino al confine con il Kirghizistan, muoiono undici persone e altre quattro rimangono ferite dopo un attacco portato ad alcune auto della polizia
25 novembre 2013. L’attentato in piazza Tian’anmen del 28 ottobre viene rivendicato dal gruppo separatista Tip, Turkestan Islmic Party. In un video diffuso dalla societa’ di intelligence SITE, il leader del movimento, Abdullah Mansour, definisce il gesto come una “operazione jihadista”. Le dimensioni del TIP e il numero di membri rimangono incerte. Inserito dagli Stati Uniti nella lista nera delle organizzazioni terroristiche da tenere sotto sorveglianza, nel 2002, era stato successivamente depennato.
Nel messaggio contenuto nel video, Mansour minaccia la realizzazione di altri attentati.
Vengono arrestati otto sospettati, tutti di etnia uighura, per coinvolgimento nell’attentato ed emergono nuovi particolari sulla costruzione e sui costi dell’attentato, appena 5 mila dollari.
28 ottobre 2013 – Verso mezzogiorno, ora locale, Usmen Hasan, sua moglie e sua madre – tutti di etnia uighuri – si mettono alla guida di un Suv e una volta giunto in Piazza Tian’anmen, luogo trai popolati e trafficati della Cina – nel cuore di Pechino – si scaglia sulla folla travolgendo i passanti.
Il veicolo conclude la sua folle corsa in fiamme, dopo lo schianto contro le barriere della Città Proibita, fulcro sacro della capitale. Muoiono 5 persone, tra cui le tre a bordo del suv, che precedentemente all’attentato si erano intinti di benzina. Altre quaranta persone rimangono ferite.
Il Dragone rosso è colpito al suo cuore, inaspettatamente, mostrando un lato vulnerabile della Cina che fino a quel momento sembrava inesistente.
Comincia l’escalation della crisi, 4 anni dopo la gravissima fase di scontri razziali del 2009, quando le autorità cinesi decisero di radere al suolo il centro storico di Kashgar, nello Xinjiang, prevalentemente abitata da uighuri. I conflitti che ne susseguirono, fra musulmani, polizia e cinesi di etnia han portarono – secondo fonti ufficiali cinesi – alla morte 100 persone; il portavoce Dolkun Isa, del “World Uyghur Congress” denunciò la morte di circa 600 persone, con una partecipazione popolare alla sommossa di 10 mila unità
Le motivazioni di tali disordini sociali, degli attentati disumani e di questi moti popolari uighuri sono di varia natura, ma principalmente riconducibili a due fattori: uno appunto di carattere etnico-religioso, e un altro legato agli innumerevoli giacimenti di materie prime presenti nel territorio della regione autonoma. E la Storia insegna che tali problematiche insieme risultano letali.
Lo Xinjiang è una terra ricca di petrolio e gas naturale, di importanza strategica per Pechino. La località di Lukqun, è sede di un importante giacimento di petrolio con riserve per cento milioni di tonnellate, di cui il colosso petrolifero cinese China National Petroleum Corporation, detiene i diritti di sfruttamento dal 2011. Attualmente nella zona sono 113 i pozzi in fase di esplorazione, la cui apertura avrebbe causato, secondo la popolazione locale, un calo nelle riserve d’acqua negli ultimi anni. Pechino accusa terroristi del Tip e del Etim, East Turkestan Islmic Movement – che da anni rivendica l’indipendenza totale Xinjiang – di atti sovversivi a danno della collettività per puri scopi di propaganda volti ai propri interessi e al congiungimento alle varie cellule jihadiste sparse nel mondo.
Secondo Dilxat Raxit, portavoce del Congresso Mondiale Uiguro, che raccoglie le diverse organizzazioni di uiguri in esilio, molti disordini sarebbero causati dalla “continua repressione e provocazione” alla popolazione uigura da parte delle autorità cinesi. Oltre che dalla non riconosciuta cultura di appartenenza con veri atti di derisione.