di
Maria Frasson
(puntate precedenti: I, II, III, IV, V, VI, VII)
LA GUERRA IN A.O.I.
Il sottotenente Mario Pezzini: 6o Alpini, divisione Pusteria, ai primi di gennaio del ’36 arrivò a Massaua, dove incontrò il primo disagio nella temperatura – che superava i 40 gradi – dopo aver fatto la traversata in cuccetta perché non stava bene. Aveva tosse e febbre. Per fortuna fu subito trasferito sull’altipiano dell’Asmara, sui mille metri d’altezza: si potè coricare forse su un pagliericcio, o comunque per terra, dormì per 10 ore e si svegliò perfettamente guarito. La montagna evidentemente può giovare più del mare.
Il capitano Loffredo, che era un gran brav’uomo ma – secondo me – anche un po’ fanatico, forse anche troppo presto volle sottoporre i suoi alpini a quello che era chiamato il battesimo del fuoco. Allora non c’era la censura e dalle lettere che ricevevo – sempre angosciosamente attese – trasparivano, oltre alle impressioni provate, anche tutti gli avvenimenti generalmente vissuti laggiù.
Alla nostra generazione, che è stata la più tormentata di questo secolo, è stato concesso tuttavia di ricordare, oltre alle prove più dure, anche l’ingenuo entusiasmo dei giovani di allora (che fu solo di allora, e non più) per gli avvenimenti della guerra dell’AOI (Africa Orientale Italiana) oltre alla fierezza di avervi partecipato. Ingenuità che oggi può stupire, ma non più di quanto non stupiscano ai nostri giorni la passione per i cantanti preferiti o il tifo sportivo.
I fatti storici, così come i personaggi, vanno visti in un contesto di circostanze e di situazioni, di premesse e di conseguenze che non è facile comprendere se non ripercorrendo umilmente le tracce del cammino evolutivo dell’umanità, inserito nel piano universale e misterioso di Dio.
AFRICA ORIENTALE ITALIANA
II maresciallo Badoglio (che si sarebbe comportato più tardi, e precisamente nel ’43, in modo tanto spregevole, quanto il Re, da non meritare attenuanti) era allora ritenuto – e lo era – un buon soldato. E non ebbe soltanto fortuna, ma anche merito nell’eseguire i compiti che gli spettavano: con abilità e anche con dignità. Aveva preparato le sue azioni di guerra da tecnico e da professionista, e senza ricorrere a quelle crudeltà inutili che si imputavano al suo avversario, il generale Graziani, e nemmeno ai gas, di cui si parlò in seguito esagerando molto, mentre la grande maggioranza dei combattenti nemmeno si accorse mai.
Le truppe erano ben preparate, e, con larghezza di mezzi, anche ben equipaggiate, come lo erano gli Ascari, ossia i soldati abissini provenienti dalle nostre colonie: reparti speciali dell’esercito italiano.
La guerra aveva avuto agli inizi un esito incerto, ma poi ebbe ben presto un andamento assai più favorevole, mentre si andava delineando la nostra superiorità soprattutto organizzativa di fronte alla mancanza di coordinamento delle divisioni abissine affidate ai cosi detti “Ras”: sorta di feudatari dipendenti dal Negus – imperatore e re.
Badoglio aveva un piano ben preciso che tendeva alla conquista dell’Amba Aradam per aprirsi una via verso la capitale. Fu proprio quando arrivarono di rinforzo gli alpini che lo mise in atto.
Nel vasto territorio etiopico, oltremodo vario nella sua natura geologica, sorgevano isolate quelle che erano dette Ambe: montagne a forma di cono, tronco sulla cima, che si prestavano ad essere usate come fortezze.
Ad Amba Bohorà, 31.03.36
Il lago Ascianghi
L’Amba Aradam fu la prima ad essere espugnata in quella che fu chiamata la grande battaglia del Tembien, combattuta molto duramente da entrambe le parti, e si concluse con la strepitosa vittoria della divisione alpina Pusteria.
Mario me la descrisse minuziosamente in una sua lettera piena di entusiasmo, tanto che io pensai maliziosamente che gli piacesse fare la guerra, come ai bambini: atavico istinto umano. Del resto non si smentiva un carattere come il suo che, sotto un’apparenza seria e riservata, celava nel profondo il gusto dell’avventura. Una volta che, più tardi, io gli chiesi come si fa a non aver paura quando le pallottole ti fischiano intorno da tutte le parti, mi rispose, molto semplicemente che il coraggio non è altro che paura compressa. Giusto, mi pare anche a proposito del pusillanime Don Abbondio, al quale si potrebbe obiettare che, sull’esempio del Vangelo, se “il coraggio uno non se lo può dare”, noi poveri esseri umani possiamo invocarlo ed ottenerlo dall’Alto.
Io ero comunque orgogliosa del mio uomo e pregavo con tutta la passione del mio cuore che mi fosse risparmiato. “Regnum caelorum vim patitur”: il Signore rivolse allora il suo volto benevolo verso la perseveranza della mia preghiera.
(continua…)