Esiste un insopprimibile impulso a ritornare in carcere, una forza interiore potente e irrazionale che porta a delinquere e sfidare un altro arresto anche dopo aver subito anni di detenzione.
Così c'è gente che ritorna in carcere anche solo un mese di libertà, intervallando anni di detenzione con poche settimane di vita normale.
Il carcere attrae, come una mamma, come una tana, come il richiamo della foresta.
Resta insondabile la forza che preferisce la quotidianità, certa e ripetuta, della sezione detentiva alla fatica della vita dentro le relazioni del contesto libero, perchè pesa la fatica della responsabilità e della ricerca, il dolore degli impegni, la necessità delle risposte, l'urgenza dei bisogni concreti.
Pesa la libera scelta, pesano le relazioni complicate, la gestione dei conflitti, il governo giornaliero degli affetti.
Allora la bolla esistenziale del carcere, conflittuale e dolorosa, ma separata da impegni davvero coinvolgenti, sembra più facile da vivere, più riconoscibile, accettabile, con regole chiare e immobili, determinata nei tempi e nelle modalità.
Il carcere è un contenitore dalle istruzioni codificate, dalla gestione semplificata, per questo inutile, autoriproduttivo, diseducativo, passivizzante, puramente afflittivo, perverso per quanto di dolore privo di significato produce al corpo e alla mente.