“L’Italia non ricorda”, è una delle prime battute che ho dato ad Aldo Braibanti, nel testo a lui dedicato. Quando mi sono imbattuto nel caso Braibanti, mi è infatti sembrato singolare che di una pagina altamente istruttiva della nostra storia si parlasse così poco, e che fosse ricordata solo dai più adulti o dagli studiosi.
Per fortuna internet ha reso disponibili documenti interessanti, e prezioso è stato per me il saggio di Gabriele Ferluga, “Il processo Braibanti”. Poco o niente c’è nel testo teatrale, infatti, che non provenga direttamente dagli atti del processo, o da articoli di giornale con interviste ai protagonisti o commenti che intellettuali ed artisti hanno riservato alla discussa sentenza. Le lettere di Braibanti alla madre sono originali, e la poesia finale è dell’autore. Questa volta non ho voluto “inventare”: mi sembrava che si dovesse trovare solo il giusto tono, un equilibrio tra satira di costume e dramma psicologico, per tenere insieme le parole degli avvocati – così violente – insieme alle loro tesi – così ridicole. Sono a tratti divertenti gli interrogatori e le arringhe, mentre sono agghiaccianti le dichiarazioni omofobiche dei cosiddetti “periti”. Per non parlare delle cartelle cliniche firmate dagli “specialisti in malattie nervose” delle cliniche dove fu rinchiuso il giovane Giovanni Sanfratello.
La mia conclusione è che il processo Braibanti fu una vicenda medioevale. Nel ’68, mentre il mondo si trasformava in un luogo meno repressivo, in Italia bastò una “cricca” di avvocati, di psichiatri e di preti, per trasformare una storia d’amore in un “Romeo e Giulietta” omosessuale, in cui i padri per punire i figli non esitano a denunciarli per “plagio” o a sottoporli a coma insulinici ed elettrochoc. E, se ancora oggi nel nostro Paese le stesse cricche politiche, reazionarie e ipocritamente bigotte, si oppongono a una seria legge contro l’omofobia o alle unioni civili per i gay, vuol dire che il caso Braibanti non è una pagina del passato ma storia presente che può e deve, ancora, farci indignare.
Massimiliano Palmese