Il caso “Ilva”: solo il disastro dei Riva o il prodotto di un senso civico distorto?

Creato il 28 ottobre 2013 da Sviluppofelice @sviluppofelice

di Anna Azzurra Gigante

È trascorso più di un anno dal giorno in cui il gip di Taranto Patrizia Todisco ordina il sequestro preventivo senza facoltà d’uso dell’area a caldo dell’Ilva. Il fondatore Emilio Riva, il figlio Nicola e i maggiori dirigenti sono accusati di disastro ambientale volontario, provocato dall’attività del siderurgico, e all’origine dell’anomalo incremento di affezioni e decessi per tumore nella città. Da quel giorno la famiglia Riva, che acquisì l’Ilva nel 1995 dallo Stato – a seguito del processo di privatizzazione avviato dall’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) che controllava l’Ilva dal 1933 (l’Ilva nacque nel 1905 e cambiò denominazione in Italsider nel periodo 1964-97) – è la protagonista di una storia complessa, gravata da pesanti responsabilità penali.

Sulla base delle inchieste della magistratura e ripercorrendo le vicende di ex operai, allevatori, ambientalisti, sindacalisti, esperti e figure istituzionali, Loris Campetti – giornalista marchigiano esperto di economia e relazioni sindacali – prova a sbrogliare l’intricata matassa avvolta attorno alla gestione del siderurgico di Taranto.

L’accattivante titolo del suo reportage “Ilva Connection” (San Cesario di Lecce: Manni, 2013) richiama il nome dell’operazione “Sicilian connection”, condotta dall’FBI negli anni ’80 (che vedeva l’intervento prezioso del giudice Falcone) per scardinare la rete mafiosa italo-americana[1].

Anche quella attorno alle attività dell’Ilva è una rete, una “ragnatela di corruzioni, omissioni, colpevoli negligenze”, come denuncia Campetti. L’inchiesta descrive un sistema di potere e privilegi, di scambi e favori, messo in piedi dai Riva e che coinvolge importanti personalità delle istituzioni. Tale sistema tiene vivo il conflitto capitale-lavoro che, in questo caso, diventa anche conflitto salute-lavoro.

La soluzione prospettata dall’autore per superare definitivamente il modello economico e sociale realizzato all’Ilva e a Taranto è l’uscita della famiglia Riva dal settore siderurgico. L’assunzione di responsabilità da parte dei sindacati e della politica è indispensabile.

È davvero sufficiente, tuttavia, sostituire la struttura proprietaria di un’azienda – sia pure la più importante in Italia per produzione siderurgica e la più grande in Europa – e invocare la discesa dello Stato, come sostiene l’autore?

L’intervento pubblico è necessario. Il sistema sociale di garanzia dei diritti non può funzionare se la logica del profitto guida sovrana le scelte dei privati. Lo Stato deve dirigere tali scelte verso obiettivi di efficienza economica e sociale, perché entrambe contribuiscono al progresso della comunità.

Un intervento così inteso è possibile, però, solo quando Stato e cittadini condividono un insieme di valori che concorrono a tale progresso. Si tratta dei valori alla base dei rapporti tra Stato e privati che, da un lato, definiscono l’identità civica di un paese e, dall’altro, rappresentano i principi guida della produzione delle norme giuridiche, economiche e sociali.

Quindi, dietro al disastro Ilva, si cela un problema ancora più grave che attanaglia l’Italia – e soprattutto il Mezzogiorno – da troppo tempo: lo sviluppo di relazioni sociali improntate allo spicciolo tornaconto, all’arricchimento facile e irresponsabile, all’espediente della corruzione e del clientelismo, all’indifferenza verso il bene pubblico. La verticalizzazione delle relazioni sociali – strutturata dagli interessi dei più forti (in alto), seguiti dalle categorie ad essi sottomesse (in basso) – è prevalsa sin dal lontano medioevo su un’organizzazione di tipo orizzontale, in cui è l’interesse generale, e non quello privato, a prevalere.[2]

Il sistema di poteri e privilegi costruito intorno all’Ilva, che poggia sulla violazione delle regole e sul pervicace perseguimento dell’interesse dei singoli, incarna pienamente tale schema. Lo stato è percepito lontano da chi chiede che il diritto alla salute venga tutelato pienamente. Oppure è considerato un mero strumento, attraverso il quale permettere al siderurgico di proseguire la sua attività, anche se non c’è un’effettiva bonifica degli impianti.

Così, accanto a quel meraviglioso “capitale culturale inutilizzato” che è la Costituzione, come la definisce S. Rodotà (che interviene nel reportage di Campetti) e all’apparato normativo che essa ha ispirato, continuano a operare valori malati. Valori portatori di un senso civico distorto e pernicioso che ha guidato parte delle scelte dei privati e dello Stato.

Fino a quando tali valori permeeranno i rapporti sociali, sarà difficile uscire dal “modello Riva”. Occorre invocare, allora, non solo l’intervento dello Stato, ma ancor prima un nuovo senso di Stato e di aggregazione sociale, non come dimensioni lontane, ma come laboratorio condiviso di diritti e di sviluppo.


[1]Cfr. A. Coletti, Mafie, Torino: SEI, 1995.

[2]Cfr. L’arretratezza del Mezzogiorno, a cura di C. Perrotta e C. Sunna, Bruno Mondadori, 2012, soprattutto capp.1, 3, 10.

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