Così Lance Armstrong, il ciclista tornato a vincere dopo aver sconfitto il cancro e rivale storico del campione di Cesenatico, ricorda il Pirata dopo la sua morte. Marco Pantani, recita il certificato di morte, viene ucciso a 34 anni il 14 febbraio 2004 per un’overdose di cocaina che gli ha causato un edema polmonare e uno celebrale. La droga, ha stabilito la magistratura, sarebbe stata ingerita in quantità sei volte più elevata – circa un etto – a quella mortale cioè circa un etto. Se l’è mangiata, dicono le indagini, all’interno di un residence di Rimini, “Le Rose”, di certo di qualità inferiore rispetto alle possibilità economiche del ciclista.
Perché lo avesse scelto non è chiaro, qualcuno dice che il motivo sarebbe stato che lì, a Rimini, ci sarebbe stata Christine, la giovane danese che per più di sette anni, dal 1996 fino all’estate 2003, sarà la sua compagna.
Christine non c’è a Rimini, ma Pantani decide di restare nella cittadina romagnola, dov’era giunto il 19 febbraio a bordo di un taxi da Milano, pagando la corsa più di 600 euro. Come trascorra quei cinque giorni non si sa con esattezza. E soprattutto non si sa cosa accada nelle ultime dieci ore di vita di Pantani. Ciò che invece si sa è che l’ultimo giorno chiama due volte alla reception del residence e chiede che vengano chiamati i carabinieri perché ci sarebbe qualcuno che lo infastidisce.
L’addetta alla portineria, la prima volta, glissa, ma alla seconda qualcosa la mette in allarme e allora sale nella stanza del ciclista. Dopo aver bussato, sente una risposta impastata dall’interno. Non coglie esattamente le parole che vengono pronunciate dall’interno ma tutto finisce lì. Non accade nulla.
Quando sarà scoperto il corpo, però, la stanza apparirà in uno stato disastroso: chi ha distrutto l’interno, si è dato tanta pena nella sua azione che anche le bocchette di areazione sono state divelte dal muro. Ma sulle mani di Marco Pantani non verranno trovati segni, graffi o altre ferite compatibili con una furia del genere. Accanto alla bocca del pirata viene invece rinvenuto e repertato un rigurgito, composto da mollica di pane e cocaina mentre sul collo compaiono due ecchimosi, due a destra e una a sinistra, oltre che un’escoriazione sulla fronte.
Il sospetto di chi non crede all’overdose accidentale o al suicidio è che, soprattutto a causa di quei segni a qualche centimetro dalle orecchie, qualcuno abbia afferrato Marco Pantani per la gola costringendolo a ingurgitare una dose letale di droga. Altra stranezza: all’interno della stanza non viene ritrovata alcuna traccia di coca mentre invece il ciclista ne era ormai un assuntore abituale. Possibile che tutto lo stupefacente che avesse se lo fosse inghiottito senza lasciarne qualche particella in giro?
Lo dicano le indagini, a cui si affida la famiglia. Ma l’inchiesta – a detta loro – termina subito giungendo rapidamente a una conclusione: suicidio. Eppure, insisteranno per anni i congiunti dei parenti, non sarebbero state effettuate verifiche sulle impronte digitali nella camera del residence e altrettanto mancano rilievi di tracce biologiche dal corpo e dalle mani di Pantani. Se fossero state cercare e analizzate, aggiungono i familiari, forse avrebbero condotto al dna di un eventuale aggressore.
Questi gli elementi in mano a chi ripete che il Pirata sarebbe stato ammazzato. Ma le prove di un omicidio non sembrano emergere così come un possibile movente. Anzi, per l’entourage poco raccomandabile che frequentava l’ormai ex campione negli ultimi periodi della sua vita, Pantani era più utile da vivo. Di denaro, durante la sua carriera, ne aveva guadagnato davvero molto e c’è chi sostiene che dai pusher fosse considerato una specie di bancomat, uno a cui smerciare quanta più droga possibile ricavandone il maggior profitto.
E poi c’era lo stato di abbruttimento morale e psicologico in cui era scivolato. Chi partecipò ai festeggiamenti dell’ultimo compleanno di Pantani, il 13 gennaio 2004, l’impressione che ne trasse è Pantani fosse arrivato a fine corsa davvero, che fosse in uno stato di profonda prostrazione controbilanciata da una esplicita tossicodipendenza che non si dava pena di nascondere. Anzi la esibiva sniffando di fronte agli altri e cacciando la testa dentro i sacchetti di coca da cui tirava tutto quello che poteva inalare. Un mese dopo, dunque, c’è chi non si stupisce della morte del ciclista. Una morte annunciata che non si voleva vedere avvicinarsi mascherandola dietro un’attività agonistica ancora in corso, per quanto ormai disastrosa.
Nonostante questo, Marco Pantani – sostengono i familiari – sarebbe stato ucciso due volte: se la seconda l’abbiamo appena descritta, la prima torna a Madonna di Campiglio. Torna al 5 giugno 1999, quando viene escluso dal Giro d’Italia dopo un discusso test di cui si è scritto lungamente nel precedente post dedicato al Pirata. Un test che fissava il suo tasso di ematocrito al 52 per cento, 2 punti sopra il limite consentito e 4 il livello individuato da test immediatamente precedenti e successivi. La morte peggiore, per qualcuno, rispetto a quella fisica, perché Pantani era un simbolo per il ciclismo, un idolo per i suoi tifosi. Perché dunque farlo fuori professionalmente? Chi poteva volere la distruzione morale del ciclista?
Il giornalista sportivo francese Philippe Brunel, alle telecamere di La7 dice:
Le ragioni sono politiche perché [Pantani] infastidiva i dirigenti della federazione italiana che volevano imporre dei controlli supplementari sul sangue nel Giro d’Italia. Lui si era battuto perché i corridori si sottoponessero a un unico controllo antidoping. Non voleva diventare una specie di topo da laboratorio costantemente sotto controllo.
Appena prima di quel test a Madonna di Campiglio, Pantani aveva infatti dichiarato alla stampa:
Senza voler girare troppo intorno al problema, allora, il primo giorno siamo stati sottoposti a un controllo del sangue e poi dopo cinque giorni si presenta un altro ente a rifarci i controlli del sangue… Noi siamo qua a correre in bicicletta, non a fare delle donazioni. Quindi se domani o dopodomani o in qualsiasi altro giorno si presenta il Coni a farci fare delle cose che non sono previste, i corridori non partono al Giro d’Italia.
Insomma, non le mandava a dire. Ma oltre a questo, un Pantani silurato con l’accusa di doping non aveva gran senso perché lui era anche una macchina da soldi per chi gravitava nell’ambiente del ciclismo agonistico. E qui tornerebbe il discorso delle scommesse clandestine, un giro di miliardi di lire puntati sul Pirata che potevano sbancare i gestori delle puntate illegali.
Forse, su questo punto, ci sarebbe ancora da cercare. Perché l’ultima salita – espressione che dà il titolo anche a una canzone dei Nomadi dedicata al Pirata – rimane ancora irta di passaggi oscuri.
LINK AI POST CORRELATI:
Il caso Pantani: storia di un campione annientato – Seconda parte
Il caso Pantani: storia di un campione annientato – Prima parte -