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Il catalogo fotografico “Ahi” di Rita Vitali Rosati. Commento di Lorenzo Spurio

Creato il 27 maggio 2015 da Lorenzo127

“Ahi” (2011)

Catalogo fotografico di Rita Vitali Rosati

commento a cura di Lorenzo Spurio  

Il catalogo fotografico “Ahi” di Rita Vitali Rosati. Commento di Lorenzo Spurio

Il volume fotografico “Ahi” (2011) di Rita Vitali Rosati

Un corposo catalogo fotografico del quale si apprezza l’eterogeneità delle tematiche, la forza espressiva delle immagini nonché le “pose” e dunque le inclinazioni della macchina da presa.

Rita Vitali Rosati nel volume Ahi propone un percorso inconsueto e attrattivo all’interno del mondo della rappresentazione, non tanto artistica e dunque meramente intessuta su di un impeto ispirativo, ma quella della vita contemporanea dell’uomo improntata alla riproduzione seriale, all’accumulo e all’utilizzo di beni che hanno un uso e consumo limitato nel tempo. L’artista in questo excursus nel mondo dell’immagine, stampa diapositive continue di scene, figure e presenze che si stagliano per lo più nel piccolo schermo, siano esse di fatti di cronaca, di politica, di intrattenimento generale. L’istantaneità del momento è colto dalla Vitali Rosati in maniera spontanea e al contempo precisa e trasposto accuratamente dal supporto video a quello cartaceo, acconsentendo quindi a una fruibilità maggiore e più pratica.

La copertina del volume predispone l’interessato al lavoro della Nostra a un mondo fatto di tinte chiaroscurali, di bianco-nero, e lo introduce in una dimensione di difficile resa dal punto di vista critico che assomma, però, una dimensione chiaramente scenico-agnitiva (rappresentata dalla maschera che cela l’identità vera e al contempo produce la mistificazione del soggetto) e una dimensione che si erge sul fascino dell’ignoto e che si nutre di una spietata incomprensione del soggetto da happening chiamando in causa anche il dubbio, il gusto noir e rammentando alla nostra mente qualche immagine di un film horror. Nel complesso l’immagine trasmette inquietudine sebbene produca uno spavento moderatamente attenuato dal fatto che il tema della maschera chiama non solo in causa il tema del travisamento dell’identità, ma anche quello del conscio sdoppiamento ed estraniamento adoperato in ambito teatrale. Dunque l’immagine chiama sicuramente il lettore a domandarsi non solo che cosa rappresenti, ma perché la Nostra l’abbia scelta quale biglietto da visita del presente volume. A ciò è da aggiungere che la quarta di copertina riporta la stessa immagine della cover iniziale sebbene sia rappresentata a specchio tanto che, se dispiegassimo liberamente la sovraccoperta del libro, ci troveremmo dinanzi a due maschere che, pur dallo sguardo attonito o sbigottito, sembrano interagire tra loro.

A completamento, anzi ad intervalli ben congegnati dalla Nostra, troviamo scatti che immortalano pose o dettagli in cui è la stessa fotografa l’oggetto privilegiato delle foto. Si intenda, non ci si riferisce con ciò a foto archetipiche ossia che conservano in sé una classicità nell’organizzazione, quelle che potremmo definire “paesaggistiche” o “da cartolina”, piuttosto Rita Vitali Rosati preferisce l’elemento inatteso, il dettaglio indistinto, la particolarità smussata, l’angolo recondito della stanza e con esso tutti i relativi elementi che ne contraddistinguono l’esperienza del vissuto. La stessa Rita è presente in numerose immagini piuttosto che con primi piani, foto tessere o comunque scatti organici che delineino la sua figura, con degli elementi marginali, siano essi i capelli leggermente arruffati e mai, comunque, appositamente pettinati con rigore (si veda a riguardo anche l’immagine di copertina) oppure parti del corpo che trasmettono aggressività e indignazione (i denti digrignati) o espressioni apparentemente deliranti (bocca spalancata che urla) o catatoniche (viso assopito in pose altroché convenzionali). Le mani, quando sono ritratte, assumono un ruolo importante tanto da venir a rappresentare gli elementi raffigurati in primissimo piano che non di rado divengono indistinti filtri protettivi per gli occhi ed il viso tutto.

Dal mondo personale di Rita Vitali Rosati, del suo corpo, della sua casa, prende poi il posto la vera indagine del libro che credo di non sbagliare nel dire che è mossa da un intento chiaramente di denuncia sociale. Le immagini della televisione (le riconosciamo perché sono chiaramente rigate come quando si fotografa un’immagine video e per la presenza dei relativi marchi dei canali o delle trasmissioni) salgono sul teatro dell’esistenza ed acquistano forza propria. Sono immagini di morte e di dolore, di sacrifici umani che denigrano l’umanità nella sua interezza (la ragazza uccisa da colpi di armi da fuoco delle prime pagine, con la testa reclinata in maniera innaturale contro il muro alle sue spalle, il ragazzo pieno di escoriazioni al viso che non sappiamo se essere vivo o morto).

Nella maggior parte dei casi ci è possibile rintracciare tempo e luogo, ossia i riferimenti diretti di quelle immagini, in altri casi, invece, non ci è possibile, ma credo che l’importanza di questo lavoro fotografico di Rita non stia tanto nell’andare a recuperare con precisione i vari momenti immortalati (in questo caso avrebbe potuto benissimo inserire delle didascalie, ma in questo caso sarebbe diventato un reportage o addirittura un libro storico), piuttosto l’effetto –sia esso positivo o negativo, di indignazione o commiserazione- che l’uomo può maturare dinanzi a queste foto. Foto che, è bene ricordarlo, non sono mistificazioni della realtà o invenzioni ad hoc, ma sono direttamente rappresentazioni concrete di fatti, accadimenti, vissuti, episodi ed eventi più o meno felici da ricordare.

Alle rappresentazioni di dissacrante violenza fa eco l’urlo infinito di Rita ritratta in immagini volutamente sfocate dove la bocca, grande spazio nero, diviene il simbolo della lotta, il luogo d’espressione e di rivendicazione di diritti, libertà e giustizia dinanzi alle odiose atipicità e cinismi del genere umano. Bocche che urlano in maniera continua, che denunciano e le cui urla, come nel famoso quadro di Edvard Munch, sentiamo rimestarsi nella nostra mente, finendo per non darci più tregua.

Immagini di morti in casa, ospedale, per la strada, in spazi non meglio identificati a testimoniare che la vita è fragile ed estremamente corruttibile dinanzi a tutte le intransigenze del mondo. Esistenze che sembrano cessare nel momento in cui la Nostra le “eternizza” nello scatto fotografico prima e sulla carta poi. Un catalogo di stinti corridoi d’obitorio dove è la Morte, in tutte le sue beffarde manifestazioni, a strappare le espressioni rilassate e comuni dai visi di donne, uomini, di razze diverse tra loro. Ai morti si inframmezzano feriti, persone gessate agli arti ma dai visi contriti dal dolore forse per aver perso i propri cari in una qualche calamità naturale o piuttosto in una delle tante guerre all’ordine del giorno negli scenari geopolitici a noi più distanti e, dunque, meno vicini empaticamente.

Ragazzi di etnia africana visibilmente denutriti e dagli sguardi persi nel vuoto, immagini di realtà povere e in pericolo che vivono nell’impossibilità di raggiungere una pur labile calma apparente sfilano dinanzi ai nostri occhi per mezzo della televisione, quell’occhio sul mondo che ci consegna tutto: il bello e il brutto, il quiz con un goloso montepremi e l’insensata azione stragista di qualche eversivo in giro per il mondo. Noi occidentali siamo orami assuefatti da queste immagini, sia quelle di mero intrattenimento e di goliardico spasso, sia quelle di cronache vive e spietate che scuotono le esistenze di intere famiglie, città, popoli, regioni. Con altrettanta facilità facciamo zapping da un canale all’altro, da una tragedia all’altra, con una naturalezza talmente disarmante per il fatto che a noi tutto è servito quale prodotto televisivo, dunque quale rappresentazione di qualcosa che è da vedere e consumare. Finito il telegiornale, per noi la guerra in Siria è come se si fosse estinta, spenta la televisione è come se gli eserciti dei bambini soldato nel cuore dell’Africa non venissero più reclutati, così, come per un tocco di bacchetta magica.

Occhi spalancati, espressioni di paura, mani ritratte nel loro veloce vorticare dinanzi al viso finendo per oscurarlo o maldestramente ricoperte di guanti in lattice, bocche urlanti all’infinito, bambini impauriti in campi profughi o in collocazioni di fortuna protetti da coperte di lana che intuiamo esser dono umanitario di qualche paese meno povero, militari con fucile imbracciato in qualche zona di guerra in uno scenario apocalittico e poi macerie e carri armati, auto distrutte e fatte saltare in aria, proiettili e marce per la difesa dell’ambiente, fedeli cattolici che pregano commossi e islamici piegati su se stessi in una moschea all’aria aperta in una via di qualche città europea.

Squarci di notizie sottolineate nei maggiori quotidiani nazionali in momenti di rassegna stampa dove campeggiano i nomi dei grandi del mondo tra cui Obama impegnato in un imprecisato tentativo di pacificazione che solo nell’occhiello si capisce riferirsi nei confronti di Guantanamo; manifestazioni e sit-in, lotte armate, feriti e dissanguati, corpi inermi che rimangono sul lastricato di strade non lontano da gruppi di forze dell’ordine trincerate dietro all’obbligo di non acconsentire alla tregua né all’utilizzo della violenza nei manifestanti.

Ci si sposta dall’Italia a Gaza, dall’America all’Africa, e si viaggia anche dal punto di vista temporale: foto di Hitler e Simon Wiesenthal[1] sino alla dolorosissima ecatombe che ha dilaniato il cuore dell’Occidente: l’11 settembre 2001 nel momento delle angosciose “breaking news” e poi ancora edifici che crollano, macerie di cemento e calcestruzzo che distruggono vetture e annientano la vita dell’uomo trasformando le città in cimiteri.

Sul viso predomina lo sbigottimento, il dolore e il pianto, la perdita di entusiasmo e di speranza e poi ancora i funerali blindatissimi alla presenza dei capi di stato (forse quello di Papa Giovanni Paolo II?) ed altri meno austeri in cui i congiunti si abbracciano straziati per darsi la forza, urlano e si disperano per quanto di doloroso accaduto: omicidi stradali, suicidi impensabili, violenze di genere, vendette trasversali mafiose e di altro tipo, morti bianche, malattie fulminanti e tanto altro. Le decine di bare allineate su una superficie vasta e qualche mazzo di fiore è ciò che resta dell’avventata traversata di disperati che a bordo di barconi fatiscenti hanno giocato la propria vita.

Il catalogo fotografico “Ahi” di Rita Vitali Rosati. Commento di Lorenzo Spurio

Foto tratte dal libro “Ahi” di Rita Vitali Rosati

Note che stonano o che da un altro punto di vista contribuiscono a testimoniare l’ampiezza della forbice tra povertà e benessere, tra guerra e concordia, tra disperazione e speranza sono gli scatti fatti su popolari programmi tv: Alda Merini e Cristiano Malgioglio, la monarca della poesia d’amore e del disagio esistenziale, e un qualunque vip nostrano immortalati al Chiambretti Night Show e poi ancora una carrellata di personaggi pulp della nostra televisione: Signorini, Giurato, Brooke, Ridge ed Erik della soap opera più amata (ormai non è più sufficiente lo spesso strato di trucco per renderli floridi trentenni!) e ancora, per scadere nel trash più assoluto, il marchio del Grande Fratello, l’ingombrante Gabibbo, gli “amici” della Filippi di qualche edizione passata, la Maionchi in una posa mussoliniana che, sorniona, sorride per poi (intuiamo) massacrare verbalmente qualcuno e una schiera abbastanza nutrita di politic(anti) del Belpaese: da Casini a Di Pietro, passando per Bossi e Bersani, chiaramente con rispetto della sacrosanta par condicio.

Il catalogo fotografico “Ahi” di Rita Vitali Rosati. Commento di Lorenzo Spurio

Foto tratte dal libro “Ahi” di Rita Vitali Rosati

Non manca neppure lo zio Michele in questa caleidoscopica e labirintica mostra fotografica, messo a conclusione dei fenomeni dei quali il popolo può sentirsi meno orgogliosamente italiano. La sua presenza è lì a ricordarci ciò che è accaduto e forse a rammentarci con una particolare efficacia che la violenza e la tragedia non sono ingredienti che appartengono a mondi a noi lontani, come alcuni di quelli fotografati in precedenza, ma che la follia, la desertificazione dei sentimenti e la mancanza di istruzione e di sistemi formativi, sono realtà talmente diffuse anche nel nostro Paese. Essere accolti allora a casa di Misseri (nello scatto che lo ritrae sta piangendo mentre è intervistato a casa sua ancor prima della confessione quale omicida) non è solo l’atto più conturbante e ossessivo che la Nostra abbia potuto realizzare dopo le foto di Beautiful, ma dà testimonianza, pure nel paradosso e nella sua veste più iperbolica, di quel controsenso stesso che è la vita nella quale, consapevoli o no, siamo continuamente sottoposti alla violenza e propensi a consumarne le relative notizie, da spettatori.

“Ahi”, come recita il titolo del volume, potremmo interpretarlo con il dizionario di spagnolo in mano (con la minima e sola differenza che la Nostra non accentua la vocale finale) con “lì” ossia “in quel luogo” che, diversamente da “aquí” (ossia “qui”) è un avverbio con il quale localizziamo un qualcosa che sta distante da noi o che percepiamo a noi lontano. Ed ecco allora che la spettacolarizzazione del mondo che i mezzi di comunicazione ci approvvigiona continuamente quasi da diventare maniacali voyeur diviene monito di riflessione e comprensione nell’opera fotografica della Nostra.

 

LORENZO SPURIO

 Jesi, 27 maggio 2015

 

[1] Antifascista austriaco sopravvissuto all’olocausto che ha avuto modo in varie circostanze di narrare la sua esperienza della guerra.



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