Di tutti i cosiddetti «evangelisti», ovverosia dei «redattori» che convenzionalmente la tradizione cristiana ha stabilito quali autori dei testi dei quattro vangeli cosiddetti «canonici», Luca è l’unico a provare la via, complessa, rischiosa, della rispondenza del suo racconto ai fatti storici. Oggi definiamo «storica» ogni vicenda il cui accadimento possa essere verificato attraverso fonti e documenti scritti contemporanei agli episodi narrati che sono giunti sino a noi. Come sappiamo, i dati esterni ai vangeli di cui disponiamo per ricostruire la figura storica di Gesù sono molto esigui e non ci permettono in alcun modo di tracciarne un profilo attendibile. In questo senso, l’operazione tentata da Luca è estremamente interessante: l’evangelista, difatti, cerca di integrare il suo racconto con informazioni storiche che inserisce all’interno stesso della sua narrazione. Ecco perché, a differenza degli altri evangelisti, egli fa cenno a figure riconoscibili anche da quanti non si professano cristiani.
Per fornire una collocazione storicamente verificabile alla nascita di Gesù (Luca 2:1-6), Luca cita due figure della vita politica e civile: una arcinota, l’imperatore romano Augusto; l’altra conosciuta da coloro che vivevano in Israele e nelle sue immediate vicinanze, il governatore della Siria Quirinio. Luca, in questo modo, vuole mettere in chiaro: Gesù fu un uomo in carne ed ossa, che percorse i sentieri della Galilea in un tempo preciso, per individuare il quale fornisco ai lettori i dati necessari. Per rafforzare ulteriormente l’attendibilità delle sue parole, l’evangelista cita un evento epocale, che tutti gli abitanti dello sconfinato impero romano ricordavano di certo: il censimento che lo stesso Augusto ordinò durante il suo regno.
Ecco fornite le coordinate: ora è possibile collocare nel tempo in maniera precisa e credibile la vita di Gesù e la sua predicazione itinerante. I suoi genitori, infatti, presero parte al censimento: per poterlo fare furono costretti a recarsi presso la città natale del padre di Gesù, che era di Betlemme di Giudea, non distante da Gerusalemme. Un bel viaggio per quei tempi, in cui tutti gli spostamenti avvenivano a piedi: Maria e Giuseppe difatti, ci dice il testo, vivevano a Nazareth di Galilea, là dove Gesù, più tardi, sarebbe cresciuto. Dal loro villaggio, situato nel nord, nei pressi dell’attuale Libano, Betlemme distava almeno tre, quattro giorni di cammino, che probabilmente furono ancora di più dacché Maria, ci informa il testo, era incinta. Ma tant’è: l’ordine era quello di recarsi presso la città paterna; e gli ordini di un imperatore, si sa, non ammettono replica.
Questa, dunque, l’esposizione dei fatti riportata da Luca. Come sappiamo, l’altro testo canonico che racconta l’infanzia di Gesù, l’evangelo secondo Matteo, narra in tutt’altro modo la vicenda. A quanto ci dice, difatti, Maria e Giuseppe risiedevano a Betlemme e non a Nazareth; dovettero fuggire in Egitto allo scopo di evitare la strage di neonati ordita da Erode, che Luca sembra non conoscere; il piccolo Gesù nasce nella casa dei genitori e non, come narra il testo lucano, in una mangiatoia. Insomma: tra i due testi sussistono, insieme con alcune somiglianze, naturalmente, anche profonde differenze. Si tratta di elementi tali da impedire una piena concordanza tra le due narrazioni, entrambe ritenute canoniche e, pertanto, fondanti per quel che riguarda la fede comunitaria. Ma proprio qui sta il punto: la fede nasce come esperienza comunitaria e, nel tempo, si trasforma in confessione ecclesiastica.
Questa evoluzione ha prodotto come conseguenza una lunga serie di tentativi attraverso i quali cercare di armonizzare tra di loro tradizioni nate come indipendenti: inutile dire che, immancabilmente, si è trattato di operazioni destinate al fallimento. L’impossibilità di pervenire ad un testo che si dimostrasse capace di rendere ragione delle contraddizioni contenute nei due racconti canonici dell’infanzia di Gesù era motivata proprio dalla genesi dei vangeli, i quali, originariamente, erano testi utilizzati da una specifica comunità e non scrittura sacra, il cui obiettivo era quello di uniformare il credo di una chiesa istituzionale.
Scopo di ogni testo evangelico, inizialmente, era quello di dare testimonianza dell’uomo Gesù, «messia e figlio di Dio», secondo la definizione, condivisa da tutti e quattro i vangeli, che ne dà Marco all’inizio del suo racconto (Marco 1:1). Ogni comunità, poi, declinerà questo nucleo originario dell’esperienza di fede secondo sensibilità diverse, espressione di una pluralità che, sin dalle origini, ha caratterizzato il movimento cristiano, prima che esso si configurasse secondo un modello ecclesiastico e dogmatico codificato.
Dunque, se siamo in grado di affermare senza difficoltà che i racconti dell’infanzia non sono una biografia storica di Gesù; se riconosciamo di buon grado il fatto che Betlemme, con ogni probabilità, è scelta quale luogo della nascita di Gesù soltanto per dar credito alle profezie veterotestamentarie; se ammettiamo senza scandalizzarcene che è improbabile che Giuseppe, e pertanto Gesù, fosse davvero di discendenza davidica; allora dovremmo accogliere con la stessa semplicità il fatto (e non l’ipotesi) che i vangeli contengono teologie diverse e non armonizzabili. Queste distinte, insopprimibili sensibilità teologiche, pertanto, sono chiamate a convivere e a confrontarsi, non a confluire in un sistema dottrinale omologante e omologato.
Quest’ultimo, difatti, può essere il desiderio nemmeno troppo inconfessato della visione cattolica, ma non può costituire l’approdo obbligatorio della libera ricerca. Ma perché ciò possa realizzarsi pienamente anche in seno alle distinte realtà comunitarie cristiane, è necessaria una rinuncia che, a quanto mi è dato di intendere, esse paiono ben lungi dal voler compiere: quella relativa alla pretesa di universalità. Lo abbiamo detto: Luca e Matteo, originariamente, indirizzano i loro scritti alle rispettive comunità. Ed è un cristianesimo comunitario ciò a cui le chiese dovrebbero tornare a dar vita. Perché ciò sia possibile, però, dobbiamo riconoscere l’impossibilità e persino la nocività di ogni ambizione di universalità o, il che è la stessa cosa, di cattolicità: tutto ciò che accampa pretese di universalità, difatti, esclude la convivenza e il confronto di sensibilità e di sfumature diverse. Chi ha di mira la cattolicità della chiesa, in verità, persegue lo scopo, assai meno nobile, di uniformare la fede alla dottrina. Si tratta di un aspetto che, come sovente accade, ha colto meglio di noi sedicenti cristiani uno spirito libero e acuto come Umberto Galimberti, che nel suo ultimo, illuminante testo, che ha per oggetto proprio la religione cristiana, scrive:
«Interrompono la comunicazione tutte quelle religioni che, in nome della fede, sacrificano il pensiero a un contenuto dogmatico (…) A caratterizzarle è la cattolicità [la quale] afferma di possedere il sapere totale con garanzie oggettive (…) La potenza del sistema che così si costruisce sta nella sua pre-potenza, che esclude a priori (pre) ogni ulteriorità di sensi e di significati possibili, a eccezione di quelli predisposti e coordinati dal sistema (…) Quando la verità è ridotta a quella presieduta dall’autorità assoluta (…) l’uomo (…) diventa animale domestico, incapace di oltrepassare il recinto».[1]
Alessandro Esposito – pastore valdese [Pubblicato su MicroMega on-line del 22 Maggio 2013]
[1] Tratto da: Umberto Galimberti, Cristianesimo. La religione dal cielo vuoto, Feltrinelli, Milano, 2012, cit. pagg. 228-229. A giudizio di chi scrive, si tratta di uno dei migliori saggi sul cristianesimo come fenomeno religioso, sociale, psicologico ed antropologico che siano stati pubblicati in questi ultimi anni.