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Il Cenone Fattone: menù per un Capodanno massiccio

Creato il 30 dicembre 2014 da Cicciorusso

Non ho mai capito l’eccitazione che circonda l’ultimo giorno dell’anno, né tantomeno il senso del mantra ripetuto a intervalli regolari nei precedenti 364: che si fa a Capodanno? Conosco gente più angosciata da questa domanda che da altre ben più importanti, tipo cosa succede dopo la morte? Che senso ha la vita? Quando esce il nuovo album dei Tool?

Per quanto mi riguarda, il Capodanno è poco più di un’ennesima scusa per superare nuovi limiti nel campo dell’ingerimento compulsivo di cibo e alcol. Se anche voi, mentre tutto il pianeta insensatamente festeggia, mirate solo a strafogarvi di pietanze pesantissime e a ritirarvi dalla vita con un bong in mano (cit.), ecco il menù che potrebbe far svoltare la vostra serata.

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asto: MANTAR – Death By Burning (Svart Records)

Scovati nelle profondità dell’Ade dai talent scout del Roadburn, questi due crucchi assatanati sganciano sul nostro mondo un album d’esordio che tramortisce fin dal primo ascolto. Senza inutili orpelli (ad esempio, un bassista) ma con le giuste influenze (Melvins, Motörhead e Kvelertak über alles), Death By Burning porta l’ignoranza musicale a un nuovo livello: quarantaquattro minuti di pizze in faccia, tra urla laceranti e continui scatti di violenza incontrollata. A rasoiate sludge si alternano passaggi più smaccatamente rock’n’roll, ma non mancano isteriche derive hardcore e mastodontiche schitarrate stoner. Un brano come “Spit” è ideale per tenere il ritmo mentre sbattete sul tavolo la faccia di quel vostro parente che, durante la classica tombolata familiare, decide di fare sistematicamente sfoggio della propria simpatia urlando “Ambo!” al primo numero estratto.

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Primo: YOB – Clearing The Path To Ascend (Neurot Recordings)

Tre anni dopo Atma, Mike Scheidt e soci tornano a ripulirci l’apparato uditivo con il solito enorme lavoro. I pregi e i difetti di Clearing The Path To Ascend possono essere appunto condensati in questi due aggettivi: solito ed enorme. Iniziamo dalla pars destruens: ciascuna delle quattro tracce che compongono il nuovo album è tranquillamente interscambiabile con qualsiasi altro brano tratto dagli ultimi full length della band americana, a cominciare dall’opener “In Our Blood”. La struttura dei pezzi rimane la stessa di sempre: durata superiore ai dieci minuti, felice alternanza di voce pulita e growl, riffoni pettinatissimi e sezione ritmica roboante. L’effetto sorpresa viene quindi ridotto ai minimi termini e l’impressione generale è che gli Yob abbiano trovato la quadratura del cerchio e non siano nemmeno sfiorati dall’idea di una pur minima evoluzione. Poco male, data la qualità che i Nostri sono in grado di garantire. E qui veniamo alla pars construens: Clearing The Path To Ascend è semplicemente il più bel disco doom metal del 2014. Nonostante l’agguerrita concorrenza delle nuove leve (Pallbearer e Conan in primis), gli Yob si confermano i padroni indiscussi del genere, capaci ancora di schiacciare l’ovale in meta meglio di chiunque altro. “Marrow” si aggiudica la palma di migliore canzone dell’anno, ex aequo con “The Clarity” degli Sleep: i brividi che vi pervaderanno ascoltandola dipenderanno solo in parte dal troppo cotechino ingerito.

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Secondo: PALLBEARER – Foundations Of Burden (Profound Lore)

Chiariamoci subito: Foundations Of Burden è un album pressoché perfetto. I Pallbearer avevano già dimostrato di quale pasta fossero fatti con lo splendido Sorrow And Extinction, che tuttavia in certi frangenti dava l’impressione di correre con il freno a mano tirato e in altri pareva indugiare un po’ troppo sulla propria evidente magniloquenza. A ‘sto giro, invece, gli elementi cardine del primo disco sono tirati a lucido e proiettati in una dimensione superiore: la voce di Brett Campbell sembra provenire da un altro pianeta, certamente migliore di questo, e una produzione raffinatissima permette ai cinque di Little Rock di esprimere al meglio il loro enorme potenziale. La desolante lentezza che già caratterizzava il sound dei Pallbearer viene spinta all’estremo in quasi un’ora di melodie soffocanti e ariose allo stesso tempo, culminanti in quella colata di lava mortifera che risponde al nome di “Vanished”. È restrittivo racchiudere Foundations Of Burden nell’alveo del doom: qui navighiamo ormai verso altri lidi e le influenza folk e prog, quando non prepotentemente post-rock, emergono in continuazione. Cercate di non farveli sfuggire durante l’asta del vostro Mercante in Fiera metallaro, perché con queste premesse ne vedremo delle belle.

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Contorno: GODFLESH – A World Lit Only By Fire (Avalanche Recordings)

È possibile riapparire dopo tredici anni di totale silenzio e comportarsi come se non fosse passato nemmeno un minuto? Per gli amanti delle peggiori telenovele brasiliane, naturalmente sì. Justin Broadrick non deve pensarla in maniera troppo diversa: A World Lit Only By Fire, il primo album dei Godflesh dai tempi di Hymns (2001), suona troppo prevedibile fin dalle note iniziali di “New Dark Ages”. Nulla sembra essere cambiato rispetto ai giorni oscuri in cui i due brummies annichilivano le platee di mezzo mondo con quell’incedere apocalittico e martellante che sarebbe poi diventato il marchio di fabbrica dell’intero movimento industrial metal. È in questa sorta di intransigente conservatorismo che si annidano i pregi e i difetti di uno dei ritorno discografici più attesi del 2014: da un pioniere musicale come Broadrick era forse lecito aspettarsi maggiore coraggio e intraprendenza. Invece i Godflesh scelgono la via sicura, quella che li ha resi celebri il secolo scorso ma che in questi tempi di sovrabbondanza di offerta rischia di sembrare troppo scontata, autoindulgente e compiaciuta. A World Lit Only By Fire è un disco fuori tempo massimo, crudo e asfissiante come l’aria della natìa Birmingham ma coperto da una sottile patina di polvere nostalgica che nemmeno la classe cristallina dei suoi demiurghi riesce a pulire del tutto. Peccato.

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Dessert: SWANS – To Be Kind (Young God Records)

Michael Gira è in un tale stato di grazia che se per caso decidesse di registrare un album di sole scorregge, probabilmente uscirebbe comunque un capolavoro. Dopo aver riesumato la sua visionaria creatura quattro anni or sono, lo sciamano di Los Angeles torna a scaricare i suoi peggiori incubi in un nuovo monumentale edificio sonico difficilmente inquadrabile dentro schemi o categorie predefinite. A prima vista, le due ore di To Be Kind sembrano una naturale prosecuzione del cammino iniziato nel 2012 con l’immenso The Seer: in realtà, quei demoni che nel precedente (triplo) LP sembravano sopiti sotto la magnifica architettura di pezzi epici e maestosi, ora trovano libero sfogo. Il risultato è ancora più straniante e claustrofobico, nonostante vada un po’ scemando l’aura di sacralità pagana che spesso e volentieri avvolgeva The Seer. L’universo post-apocalittico degli Swans pullula di peccatori alla disperata ricerca di un’impossibile redenzione: Gira si erge a capo di questa schiera di dannati, talvolta pifferaio magico, talaltra oscuro castigatore. Flebili sprazzi di luce malata (“A Little God In My Hands”) finiscono sempre per disciogliersi nella tenebra più profonda (“Bring The Sun / Toussaint L’Ouverture”). Chi ha avuto modo di vedere gli Swans dal vivo conosce bene l’impatto totalizzante che contraddistingue i loro show. To Be Kind produce lo stesso effetto: vorresti smettere di ascoltarlo ma non riesci, ne sei ammaliato e al contempo disgustato, tenti di scappare ma tutte le porte sono irrimediabilmente serrate. Non si può far altro che lasciarsi annegare in questa palude, dove il naufragar è assai poco dolce.

Ecco, fratelli del vero metal: se dopo tutto ‘sto popò di roba vi ritroverete ad alzare il calice nella sala del Valhalla, non preoccupatevi troppo, perché vuol dire che sarete entrati nel 2015 con il passo giusto. Quello pesante.

Buon anno!



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