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Il cibo come sistema di comunicazione (prima parte)

Creato il 06 maggio 2013 da Greeno @greeno_com
Il cibo come sistema di comunicazione (prima parte)Send to Kindle
Il cibo è certamente uno dei prodotti simbolicamente più “densi” della sintesi fra Natura e Cultura. Ad esso dedichiamo un approfondimento, per provare a ragionare sui discorsi che con esso e attraverso esso vengono costruiti, sul suo ruolo determinante nella costruzione di identità, sulla sua portata relazionale.
 
 

Quando Raymond Williams (in un saggio del 1958) identificò la cultura come ‘ordinaria’, concentrò le sue riflessioni su quegli elementi della vita di ogni giorno che formano il nucleo significativo della nostra esistenza. Uno di questi era il cibo. Che però, per il fatto di essere consumato con rito quotidiano ed ordinario, appunto, viene spesso considerato come semplice nutrimento.  In realtà, non si fa fatica a comprendere che il cibo è molto più di un mezzo di sostentamento. Esso è correlato a un’enormità di aspetti della nostra vita, è un fattore decisivo nella percezione che noi abbiamo di noi stessi e degli altri, è al centro di istanze sociali e politiche, è un potente oggetto di negoziazione, a vari livelli.

Negli ultimi decenni abbiamo assistito ad una crescita senza precedenti del consumo di cibo, non solo materiale, ma anche mediatico e culturale, tanto che molti studiosi parlano di una vera e propria “food explosion” trasversale a numerosi ambiti. Sembra che il cibo, ed i discorsi che lo riguardano, siano davvero dappertutto. Esiste oggi maggiore consapevolezza dell’importanza del cibo all’interno della società e della cultura contemporanee e questo determina un ulteriore bisogno di esplorarlo.

Sebbene l’argomento ‘cibo’ sia stato abbondantemente trattato all’interno di numerose discipline (dall’antropologia alla sociologia alla storia dei costumi), non è stato affrontato altrettanto spesso e altrettanto organicamente nel campo della comunicazione. Eppure, come suggeriscono Lindenfeld e Langellier (2009), negli ultimi anni si è notata una sensibilità più marcata verso questo complesso oggetto di studio, che lascia intuire un interesse accademico finalmente più compiuto. Quest’area di studio emergente suggerisce il motivo (anzi i motivi, numerosi)  per i quali il cibo debba opportunamente essere studiato con il punto di vista degli studiosi di comunicazione. Inoltre rende conto della sua legittimità di strumento utile a meglio comprendere le teorie e le pratiche della comunicazione. Secondo una definizione diffusa, la comunicazione è il processo attraverso il quale comprendiamo il mondo e proviamo a trasmettere agli altri la nostra comprensione, mediante il linguaggio sia verbale che non verbale. Per tale ragione, possiamo vedere il cibo come una forma di comunicazione, in quanto mezzo non verbale per il cui tramite condividiamo significati con gli altri. Scriveva Roland Barthes:

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“il cibo è un sistema di comunicazione, un corpo di immagini, un protocollo di usi, situazioni e comportamenti. Le informazioni sul cibo devono essere raccolte ovunque le si possa trovare: attraverso l’osservazione diretta nell’economia, nelle tecniche, nei costumi e nella pubblicità; e attraverso l’osservazione indiretta nella vita mentale di una data società”.

Altri studiosi, come Claude Levi-Strauss e Mary Douglas hanno provato a dimostrare che il cibo rispetta le stesse pratiche del linguaggio, poiché è un codice che può essere utilizzato per esprimere modelli di relazioni sociali. Spurlock (2009) sostiene anche che “per via della loro capacità di significare, mediare e rappresentare la natura e la cultura, le abitudini alimentari e le pratiche culinarie sono profondamente retoriche e performative”. Secondo Rothenbuhler, la prima ragione per cui bisognerebbe considerare il cibo come una forma di comunicazione è perché esso è direttamente collegato sia alla cultura che al rituale, laddove per rituale si intende “l’esecuzione volontaria di un comportamento adeguatamente progettato per dare senso e prendere parte alla vita reale”. In nessun’altra circostanza questo senso di realtà – questo rafforzamento del momento – sono così forti come nei rituali che riguardano o includono il cibo. Il cibo è perfettamente centrale in tutti i nostri eventi più importanti (nascite, compleanni, matrimoni, vacanze, persino funerali in molte culture). All’interno dei contesti rituali, il cibo molto spesso agisce simbolicamente, simulando o rimandando idee come l’amore, la felicità, l’amicizia, il dolore etc.

Anche nell’ambito della nostra esperienza quotidiana, i modi in cui mangiamo e condividiamo il pasto con gli altri possono senz’altro essere etichettati come rituali, perché implicano la ripetizione, una serie di comportamenti attesi e l’attribuzione di ruoli ben precisi sia ai commensali che al cibo stesso. Di conseguenza, se usato ritualmente, il cibo può essere considerato come una forma di cultura anche nel suo stato ‘ordinario’. Per tornare a Raymond Williams, se noi vediamo il cibo come un risvolto comune delle nostre vite e vediamo la cultura come ‘ordinaria’, allora il cibo è certamente un mezzo attraverso il quale creare culture.

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Nel suo libro “Il cibo è cultura”, Montanari (2006) sostiene questa prospettiva affermando che “il cibo è cultura quando è prodotto, quando è preparato, quando è consumato”. Questo per dire che, in ogni passaggio dei nostri incontri con il cibo, facciamo su di esso un determinato investimento piuttosto che un altro, sia che ciò avvenga quando scegliamo un cibo al posto di un altro, sia che lo prepariamo in un modo invece che in un altro, sia da come lo consumiamo. Attraverso la sua assenza e presenza nella vita di ogni giorno, il cibo e le abitudini ad esso connesse denotano gli interessi morali ed estetici di un determinato contesto culturale. Perché lo usiamo come un vero e proprio mezzo di comunicazione.

Oltre vent’anni fa James W. Carey scriveva: “la comunicazione è un processo simbolico per mezzo del quale la realtà è prodotta, mantenuta, riparata e trasformata”. Se dovessimo seguire questo argomento, allora il cibo sarebbe certamente uno dei simboli più prossimi a nostra disposizione. Noi usiamo il cibo per comunicare con gli altri e come uno strumento per dimostrare la nostra personalità, l’affiliazione ad un gruppo, la distinzione da un altro gruppo o da un’altra cultura, per indicare un’estrazione socioeconomica. In questo senso il cibo è un prodotto ed uno specchio dell’organizzazione di una società. Funziona simbolicamente come una pratica comunicativa attraverso la quale creiamo, gestiamo e condividiamo significati con gli altri. Probabilmente uno dei motivi più ricorrenti per cui utilizziamo il cibo è la costruzione vera e propria della nostra identità personale. Basti pensare che noi definiamo regolarmente chi siamo in base al cibo che mangiamo, e chi non siamo in base a quello che evitiamo di consumare. Ad esempio, una persona può decidere di identificarsi come vegano, carnivoro, onnivoro, vegetariano etc. Abbiamo una connessione diretta e viscerale con il cibo. È legato alla sfera emotiva, alla memoria, talvolta persino alla necessità di conforto.

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Aldilà al nostro rapporto personale con il cibo, noi lo usiamo anche come un mezzo per comunicare le nostre identità attraverso i nostri processi di preparazione e i modi in cui lo consumiamo, a seconda delle situazioni e dei contesti sociali in cui ci troviamo. E facciamo ricorso al cibo per identificarci con gli altri. Scriveva Burke (1969) che “per persuadere una persona è necessario allineare la propria personalità alla sua attraverso l’uso del linguaggio”. Non vale forse lo stesso anche con il cibo?


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